
Le mie parole son capriole
Palle di neve al sole
Razzi incandescenti prima di scoppiare
Sono giocattoli e zanzare, sabbia da ammucchiare
Piccoli divieti a cui disobbedire
Sono andate a dormire sorprese da un dolore profondo
Che non mi riesce di spiegare
Fanno come gli pare
Si perdono al buio per poi ritornare
(Samule Bersani)
Si chiamava Gertrude, obiettivamente un nome di merda, per una vita all’altezza di queste aspettative eh! Nella melma, ciò che faceva meglio era parlare le lingue: ne conosceva ben sette in modo fluente e con la sua, lasciamo stare, faceva i tripli salti carpiati a braccio. Leggerla era un gran gusto, ascoltarla uno spettacolo teatrale anche al supermercato.
Ora, era da tanto che non parlava o che parlava molto poco; la vita le aveva tolto quasi tutte le occasioni per poterlo fare ed in questo ormai lunghissimo frangente, le era capito di inciampare in una breve, ma perfettamente forense, descrizione dell’involuzione del linguaggio: erano partiti dai geroglifici ed erano approdati agli emoticons.
In mezzo, secoli e secoli di chissà quali immense fatiche per l’utilizzo dell’alfabeto: liriche, poemi, saggi, poesie, storie, romanzi, enciclopedie! Ma anche molto più banalmente, messaggi. Sì, quelli che avevano spesso sostituito il vocalizzo, ma perlomeno parlavano. A modo loro, ma pur sempre parole erano.
Per capirci, il brevissimo M’illumino di immenso era stato ermetico, ma Dio lo sa quanta parte di vita aveva espresso e non solo, però, poiché pur essendo appunto ermetico, aveva messo in fila nientepopodimenoché diciotto caratteri alfabetici.
Roba che detta in quel momento, sarebbe sembrata faticosa al punto da far credere che scrivere diciotto caratteri avrebbe potuto causare sangue alle mani: figuriamoci alle sinapsi.
In buona sostanza, notava, a quel punto della storia (del mondo o personale non è dato sapere), che non funzionava più così. Gli eloqui scritti erano diventati pseudo-unilaterali tipo:
«Buongiorno».
«Buongiorno a te» (Emoticon con lo smile).
«Qui tutto bene stamattina. Ho mal di testa, però».
(Emoticon triste).
«Va bene, vado al lavoro. A dopo».
(Emoticon con il cuoricino).
Due, dunque, erano le cose: o si stava parlando con chi non voleva parlare (e questa ipotesi era da escludere a priori in certi casi) o, francamente, la mancanza di tempo anche all’alba aveva bruciato tanta parte di essenziale e ridotto altrettanta parte a molto meno. Il disegnino.
Com’era questo genere di comunicazione? Per lei che si era soffermata a pensarci, semplicemente fastidiosa, a livelli epici di orticaria. Se tanto continuava a restituire tanto, doveva essere proprio arrivato il momento della frutta.
Così stava giungendo alla conclusione che lei aveva bisogno (o nostalgia) di quelle persone che senti quando hai finito di lavorare, a cui puoi anche dire che stai una letterale merda e ti chiamano a prescindere dal loro caos (che è sempre peggiore del tuo, per antonomasia) facendoti sputare tutto, senza insistere. Quelle persone che ti salvano le giornate e, di giornata in giornata, la vita: quelle che sono nella fogna molto più di te e, proprio per questo, ti danno ciò di cui hanno più bisogno.
Vabbè, si sa, più uniche che rare ad un certo punto.
Ed allora disse fra sé e sé: io le mie ferite le guarisco da sola, ma resterà per sempre la stima infinita per chi mi parla accanto mentre i tagli si cicatrizzano. Con l’alfabeto e anche meno di diciotto caratteri, ma caratteri, perché se volevo i disegnini, nascevo Cleopatra! (Rise… si era anche risparmiata i congiuntivi per essere diretta. Ma alla fine diretta con chi? Parlava da sola).
Eppure aveva ragione: personalmente, anche mentre ve la racconto, non trovo nessuna strada che mi consenta di darle torto.
I disegnini: è arrivata l’Apocalisse.