Intra peritura vivimus

Intra peritura vivimus.

(Lucio Anneo Seneca)

Si sentivano giornalmente pur vivendo in nazioni diverse: una in Italia, l’altro in Danimarca. Vicini da sempre, vecchi compagni di scuola, per anni non avevano avuto rapporti molto stretti, anzi direi quasi nulli. No, in effetti non erano vicini, semplicemente sapevano di conoscersi.  Qualche anno prima di allora il loro legame si era fatto solido e, per una serie di ragioni superflue da raccontare, avevano deciso che nessun essere umano al mondo dovesse essere messo a conoscenza del loro rapporto. Non saprei dire bene neppure di quale natura fosse, perché mentre ne ascoltavo le vicende, sono finita io stessa sulle montagne russe: ogni giro era talmente intenso, provocava emozioni così diverse, da impedirmi di focalizzare un quadro esterno. Ho potuto concentrarmi solo sul dettaglio di ogni particolare, tanto da perdere la possibilità di definire in modo onesto quel legame. Di fatto, quei due si tenevano costantemente aggiornati, ambedue all’interno del loro quadrato: un quadrato da cui il resto dell’emisfero era tenuto fuori. Avevano anche delle regole non scritte, per esempio non si cercavano di sabato. Non esisteva ragione dichiarata, solo così facevano.

Ecco, sabato 30 febbraio anno di mai, ore 14:37, whatsapp.

Marco: “ciao”. Lei pranzava fuori con amici, non pensava affatto a guardare il cellulare, era sabato. Alle 15:15 lo fece, per caso, lesse il brevissimo messaggio e rimase basita.

Allora, ancora sabato 30 febbraio anno di mai, ore 15:17, whatsapp.

Viola: “come stai?”.

Silenzio tombale fino all’indomani.

Domenica 31 febbraio anno di mai, ore 06:18, whatsapp.

Viola: “Buongiorno, come stai?”

Niente. E quell’ultimo accesso whatsapp di Marco sempre uguale, fermo al giorno prima, ore 14:38, un minuto dopo il “ciao”.

Di nuovo, domenica 31 febbraio anno di mai, ore 16:30, whatsapp.

Viola: “Ma che fine hai fatto?”.

Niente. E quell’ultimo accesso whatsapp di Marco sempre uguale, fermo al giorno prima, ore 14:38, un minuto dopo il “ciao”.

Lunedì 32 febbraio, Viola rispose alla telefonata di un loro amico comune, anche lui vecchio compagno di scuola.

Gennaro: “Ma tu te lo ricordi Marco, quello che è diventato banchiere in Danimarca?”.

Il sangue di Viola si fece immobile, gelido. Lo ricordo? Ciò che so io di Marco non lo sa nessuno al mondo, avrebbe voluto rispondere. Cosa sai tu, ora, che io non posso sapere? La pressione le salì al cervello in un secondo, il sangue pompava all’impazzata, era tutto paurosamente chiaro, aspettava di sapere.

Gennaro: “Non puoi capire, ha avuto un attacco ischemico sabato pomeriggio, anossia cerebrale, è in coma irreversibile”.

Il corto circuito immediato, “ciao”, l’ultimo pensiero di Marco, quando lei non poteva nemmeno pensare di riceverlo, non lo aveva visto, forse non in tempo, forse se lo avesse sentito lui avrebbe fatto in tempo a dirle che gli serviva aiuto, forse no. Tormento. Gelo. Asfissia. Paura.

Marco, circondato ora ed improvvisamente da chiunque avesse il diritto di circondarlo in un ospedale, tutti forse aveva, meno che lei a dirgli una sola parola. Una. Lei che non esisteva, che era nessuno, che non aveva voce, che non aveva forma, che era stata l’ultimo pensiero di chi di colpo doveva essersi accorto che stava finendo, senza preavviso. Andava via. Ed andava via davvero per sempre.

Faccio fatica a scrivere, pensare che sia possibile una cosa del genere sarebbe stato facile, saperlo come lo so, perché me lo hanno raccontato in prima persona, è una delle cose più difficili che io pensi di poter sopportare.

La disperazione ha una voce, l’improvviso ha un urlo strozzato, i reiterati “mi sembra di impazzire” ancora tagliano ogni centimetro di pelle.

Marco, corteccia cerebrale a pezzi, avrebbe potuto restare in quella condizione ore, giorni, mesi. Come darsi pace a non so quanti chilometri di distanza? Non si poteva prendere il primo volo per Copenaghen, non si possedeva alcun titolo sociale per chiedere di essere accolti, ma nemmeno per chiedere, si era stati tutto per tanto di quel tempo e non era servito a niente; Marco stava morendo e gli si spegneva dietro ogni minuto che passava, in un altro Stato ed in un vortice senza capo e senza coda.

Ho sempre ritenuto giusto non sciupare il tempo concesso ogni giorno e ritenuto molto stupido chi di questo genere di spreco, invece, vive. Adesso riesco a ritenere, viceversa, stupidamente ardimentoso il mantenere anche un singolo rapporto umano, peggio se legame intenso, tanto da pensare di avere il diritto di relegarlo in un quadrato. Che fai quando la fine ti prende così e tu, ultimo pensiero, non puoi nemmeno fiatare perché non esisti? Che fai? Che fai se sai che forse la tua voce potrebbe servire da stimolo e non puoi usarla? Che fai? Che fai se sai che Marco è rimasto  mezz’ora in appossia e subito prima “ciao” lo ha scritto a te che eri ovunque, meno che lì? Che fai? Che fai quando pensi che un’abitudine cretina non ti ha concesso di accorgerti dell’ultimo cenno? Che cosa cazzo fai??? Impazzisci.

Non sono capace di rendere il volto della disperazione. Non lo so fare. So solo che nessuno dovrebbe ritrovarsi ad averlo e a nessuno auguro di doverlo vedere. Invece molti l’avranno e molti altri lo vedranno. Io non lo so se potrei sopravvivere ad una cosa così. O meglio, non riesco ad immaginare come potrei farlo, dovendolo fare.  E che Dio me ne scansi e liberi.  (Dio? Santo cielo,  Dio? Ah sì, Dio?). Ma anche volessi esortarvi con un “riflettete”, su cosa dovreste riflettere?

Esiste un aggettivo che renda l’idea di “terribile” elevato alla enne potenza, che possa rispondere alla domanda: come sa essere la vita? Terribile! È poco. È troppo poco.

Il solo pensiero di tutto questo non è infatti terribile, è aberrante e conduce in un solo luogo: lontano anni luce da chiunque ed in qualsiasi maniera già non ci sia e  tenti di avvicinarsi oltre il normale “buongiorno e buonasera” di sfuggita, in mezzo ad una strada.

Via, lontano. Una realtà del genere, cruda ed inconfutabile solo questo può fare: alzare un muro di amianto che faccia dimenticare anche solo l’esistenza, nel dizionario, del sostantivo “legame”.

Siamo macchine atte alla conservazione della specie e la nostra intelligenza non ha tutta questa marcia in più. Macchine che si rompono. Più o meno innocenti non conta, poiché a fatto compiuto non esiste selezione o differenza. A ci auànd, auànd, si dice nella mia terra. Sono barese, al solito, a Bari si dice così. A chi prende, prende. Altrimenti, per esempio, i bambini nascerebbero tutti sani.

I bambini: sono il mio tormento e questo non interessa a nessuno e dovrebbe smettere di importare anche a me, perché anche loro sono macchine, come tutti. Ci romperemo tutti. E non c’è ragione “Oltre” che sia un motivo tanto valido, da confutare la verità. Le disgrazie non vengono mandate da nessuno a nessuno. Siamo tutti delle disgrazie, in quello ci tramuteremo, prima o poi, ad ogni morte; peggio ad ogni lenta agonia. Questo siamo.

E se qualcuno biasimasse un tale pensiero io non potrei che esserne contenta: sarebbero tutte persone che la faccia di una tale angoscia non l’hanno vista in carne ed ossa. Meno male.

Viola.

Viola vaga con il volto che porta il colore del suo nome. E no, non è per niente un bel colore se poggiato sulla pelle di un essere umano. Sforzatevi di credermi, non lo è.

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FontePhotocredits: pixabay.com libera reinterpretazione Myriam Acca Massarelli
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Sono una frase, un verso, più raramente una cifra, che letta al contrario mantiene inalterato il suo significato. Un palindromo. Un’acca, quella che fondamentalmente è muta, si fa i fatti suoi, ma ha questa strana caratteristica di cambiare il suono alle parole; il fatto che ci sia o meno, a volte fa la differenza e quindi bisogna imparare ad usarla. Mi presento: Myriam Acca Massarelli, laureata in scienze religiose, insegnante di religione cattolica, pugliese trapiantata da pochissimo nel più profondo nord, quello da cui anche Aosta è distante, ma verso sud. In cammino, alla ricerca, non sempre serenamente, più spesso ardentemente. Assetata, ogni tanto in sosta, osservatrice deformata, incapace di dare nulla per scontato, intollerante alle regole, da sempre esausta delle formule. Non possiedo verità, non dico bugie ed ho un’idea di fondo: nonostante tutto, sempre, può valerne la pena. Ed in quel percorso, in cui il viaggio vale un milione di volte più della meta ed in cui il traguardo non è mai un luogo, talvolta, ho imparato, conviene fidarsi ed affidarsi.

2 COMMENTI

  1. Salve. Leggo con un “appetito” morale e narrativo, ogni volta, i suoi scritti. Si confermano piccoli miracoli. La scrittura è una strada asfaltata, illuminata e luminosa, che conduce a mondi interiori che si rivelano tutt’altro che estranei. Se l’editoria italiana avesse ancora uomini grandi come Italo Calvino, lei sicuramente potrebbe arrivare a più persone. Non si lasci inghiottire dalla solitudine della massa che non scrive ma copia da dove può, lei stia sempre dentro ciò che costruisce.

  2. Damiano, quanto scrive mi giunge come immeritato: ha nominato un “mostro” per me “sacro” quale Italo Calvino. Quindi prendo il suo commento, lo conservo e lo custodisco. È un bene prezioso, ne farò tesoro. Grazie.

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