Solo lo spazio di due parole: ciao, addio

Viola, Marco e la follia dei giorni dal 30 febbraio in poi, dell’anno di mai.

Sembrava un fatto assodato, un’ingiustizia senza tempo e senza spazio, di quelle che si accettano semplicemente continuando a vivere: l’ennesima cattiveria imposta, questa del non potersi fermare.

È tesa alla salvezza di chi resta, mi direte; guarda Oltre.

La disperazione io l’ho vista qui, vi risponderò, non posso andare Oltre, perché per le crude realtà, serve cruda visualizzazione. Il resto lascia il tempo che trova.

Bene, Viola, che vagava con il volto del colore del suo stesso nome, quello che non era un bel colore posto sul volto di un essere umano, solo qualche giorno prima si era svegliata dal torpore della quotidianità che l’aveva anestetizzata e mi aveva detto testualmente:

– Avevamo ripreso a sentirci il 36 febbraio di cinque anni fa. Sai, io non ci avevo mai fatto caso, non presto attenzione alle date, sono sciocche. Me lo aveva fatto notare Marco, rimarcando che proprio il 36 febbraio è San Vattelapesca, il nome di mio padre. Le coincidenze. E vabbè, intanto è ancora in quel letto di ospedale, la sua corteccia cerebrale è andata, cancellata dal mondo della coscienza. Fra due settimane ho il volo per Copenaghen, devo andare a quella riunione, troverò il modo di passare dalla clinica. Ho solo paura del 36 febbraio di quest’anno. Arriva prima della mia partenza. E se scegliesse di andarsene in quel giorno?

Credente, atea o agnostica che sia, una persona che ascolta un discorso del genere può solo pensare che sia plausibile, per una nelle condizioni di Viola, aver perso il lume della ragione.

Ho riso, confesso. Potevo farlo. Lei mi conosce e, al di la di me, conosce anche il peso differente delle mie risate.

Ok, hai deciso che la dipartita definitiva debba essere peggiore dell’ultimo ciao inviato un secondo prima che il suo impianto coronarico impazzisse. A posto Viola, aspettiamo gli eventi. Quando accadrà vedremo che pesci prendere e li prenderemo insieme, ho risposto.

Non contenta, giustamente, ha incalzato:

– Ho deciso! Un bel dire… avessi potuto decidere, non avrei solo saltato lo step dell’arresto cardiaco, né solo l’ultimo saluto su un cellulare non sentito. Sarei risalita a tempi ben più datati. Ci siamo intese.

Sì, ci eravamo intese perfettamente. Era tutto di una chiarezza molto più che lapalissiana; direi oltremodo distillata.  Io e lei sapevamo bene qual era il gap ed a quale istante risaliva. E no, non era quello dello sliding door datato 36 febbraio. Bisognava andare ancora molto indietro.

Caffè, conversazione chiusa.

Qualche giorno ancora di anestetico quotidiano è passato e nulla si è mosso.

Fino a stamattina.

Scena tipica e patetica: sono le 05:30 del mattino, è prestissimo. Consumo la mia ora di autismo, quello propedeutico alla ripartenza della giostra. Ho in mano il cellulare, la notifica whatsapp arriva sinuosa e silente dall’alto del display.

Mittente: Viola. Non vedo il corpo del testo, le impostazioni non lo consentono. Lascio che il mio ditino clicchi sull’icona rotonda e verde, apro il messaggio.

Non è suo personale, ma di qualcun altro che glie lo ha inviato. Lei me l’ha inoltrato, senza aggiungere una sola sillaba. Contenuto:

– Ciao Viola, Marco se n’è andato stanotte.

Il mio polso sinistro si è automaticamente alzato per consentirmi di guardare l’orologio; non mi interessava l’ora, volevo la data. In fase di autismo non posso automaticamente sapere che giorno sia.

Ed eccolo lì, apparirmi davanti con il volto soddisfatto. Un numero a due cifre, rotondo e nauseabondo. 36.

Marco se n’è andato il 36 febbraio di quest’anno. Non un giorno prima, non uno dopo. Ha sentito che stava finendo, ha scritto ciao ed ha retto l’agonia dal giorno dell’arresto cardiaco fino al 36 febbraio, scrivendo così qualcosa che nessuno potrà mai leggere: addio.

Da un altro Stato, da un’altra vita, quella in cui lei era meno che un fantasma, qualcuno, che non può essere Marco, il quale per la scienza ha finito di essere senziente già da un pezzo, l’ha salutata di nuovo, per ricordarle qual era il vero peso della sua esistenza inesistente.

Viola, di cui nessuno sapeva nulla, era il perno dell’esistenza di quel banchiere mezzo italiano e mezzo danese ormai, che ovviamente sembrava vivere di ben altro e per ben altri.

Gli scorni di chi crede che la realtà sia quella che si vede.

Resta da convincersi che sia tutta una banalissima coincidenza. Non è credibile che due cervelli e due cuori geograficamente così distanti fossero col-legati fino a questo punto: molto più lontano di ogni formula ad oggi pensata.

Se sei credente non puoi regalar fede ai riti esoterici (e questa cosa puzza così tanto di occulto); se sei ateo non puoi credere che sia una coincidenza, perché ti senti preso per il culo; se sei agnostico non sai nemmeno quanto di vero ci sia nel nome che hanno scritto sulla tua carta di identità.

Ergo, non resta niente.

Solo un fatto assurdo, che non è un arresto cardiaco e non è il 36 febbraio.

La follia sta esattamente nell’opposto, nella leggenda: si narra, infatti, che la connessione fra due anime sia stata legata alle caviglie degli umani dagli dei e sia indistruttibile.

Resta da capire perché, visto il legaccio, un’anima troppo spesso finisca impelagata in sabbie mobili ben lontane dall’altra anima a cui sarebbe destinata. Poi finisce per ritrovarla dall’altro capo del mondo, trova un modo per tenerla, un modo che però non è mai sufficiente, fino a morire, legata a lei e non certo a quel deserto zeppo di gente in carne ed ossa, che si trascina dietro da tempo immemore.

Salvando un dettaglio: tutta quella gente continuerà a credere tante cose lontanissime dalla verità.

Ed è seriamente agghiacciante il dover vedere che la verità, appunto, occupa un posto piccolissimo. Solo lo spazio di due parole: ciao, addio.

In ultimo, non per importanza, non ho sprecato nemmeno una parola dacché ho iniziato a descrivere questa vicenda: non c’è niente che risponda a nulla che non sia assolutamente vero.

Esiste anche l’ultima parte del mese di febbraio dell’anno di mai.

Giuro di dire la verità, solo la verità e nient’altro che la verità.

Fate vobis.

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FontePhotocredits: pixabay.com
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Sono una frase, un verso, più raramente una cifra, che letta al contrario mantiene inalterato il suo significato. Un palindromo. Un’acca, quella che fondamentalmente è muta, si fa i fatti suoi, ma ha questa strana caratteristica di cambiare il suono alle parole; il fatto che ci sia o meno, a volte fa la differenza e quindi bisogna imparare ad usarla. Mi presento: Myriam Acca Massarelli, laureata in scienze religiose, insegnante di religione cattolica, pugliese trapiantata da pochissimo nel più profondo nord, quello da cui anche Aosta è distante, ma verso sud. In cammino, alla ricerca, non sempre serenamente, più spesso ardentemente. Assetata, ogni tanto in sosta, osservatrice deformata, incapace di dare nulla per scontato, intollerante alle regole, da sempre esausta delle formule. Non possiedo verità, non dico bugie ed ho un’idea di fondo: nonostante tutto, sempre, può valerne la pena. Ed in quel percorso, in cui il viaggio vale un milione di volte più della meta ed in cui il traguardo non è mai un luogo, talvolta, ho imparato, conviene fidarsi ed affidarsi.