Intifada e Kefiah: Leila Khaled e il diritto a lottare per l’esistenza del proprio popolo.
“Che belle rose, avranno sicuramente un buon profumo”. Una frase sdolcinata, un pensiero forse poco originale, di quelli, per intenderci, presenti nei più comuni bigliettini d’auguri. Parole semplici, versi sensibili, pronunciati da uno dei più famigerati dirottatori della storia. Già, perché Salim Issaoui aveva steso decine di uomini sul ring. Lui, ex pugile, il naso se l’era rotto combattendo prima di tutto per passione, successivamente per principio. Troppo grande il carisma di Cassius Clay, troppo lo scalpore causato da quella scelta radicale. Quel nome occidentale non gli apparteneva, meglio schierarsi con i più deboli, meglio sentirsi leggenda facendoti chiamare Mohammed Alì.
Issaoui doveva dimostrare a tutti la potenza dei suoi muscoli, l’olfatto lo aveva abbandonato ma il suo cuore pulsava di giustizia da perseguire ad ogni costo. Così, nel luglio del ’69, affidò la sua vita nelle mani di una grande donna, Leila Khaled.
Membro del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, oggi la Khaled è tra le più stimate personalità politiche del Medio Oriente, nonché esponente di spicco nel Consiglio Legislativo Palestinese. Nota per aver preso parte, proprio con Issaoui, al dirottamento del volo TWA 840, Leila Khaled ha contribuito, con un attivismo senza precedenti, alla ostinata ricerca di libertà per la sua gente. I piani machiavellici da lei architettati viaggiavano sulla sottile linea di seta del concetto secondo cui il fine giustifica i mezzi. L’avidità de ‘’Il Principe’’ lascia qui spazio all’imposizione di una propria identità, il dovere di sbraitare per ottenere il diritto alla felicità. L’Intifada, un sottile filo di seta, dicevamo. Un copricapo della tradizione araba, la Kefiah, diffusa in ambienti agricoli e diventata, negli anni Trenta, simbolo del patriottismo palestinese, in contrapposizione al Fez utilizzato nelle aree urbane. Leila Khaled, prima ancora di Arafat, ne aveva capito l’importanza. La indossava perché in essa rivedeva le aspre lotte a difesa delle proprie radici, un volto che doveva nascondere i segni di azioni equivoche, stigmatizzate e mal interpretate dal capitalismo occidentale. Gli interventi chirurgici a cui si sottopose non la privarono solo di mistica consapevolezza, la deturparono di quella grazia femminile che Dio ha infuso nello spirito del gentil sesso che reclama l’uguaglianza rispetto agli uomini nella lotta armata palestinese.
A partire dallo scoppio della Prima Intifada e dall’opposizione di Hamas all’OLP nei territori palestinesi, la kefiah delineava, per conformazione ed associazioni cromatiche, i diversi schieramenti politici dell’individuo. La Kefiah rossa, in particolare, rimanda alle più resistenti ideologie marxiste, movimenti di massa vicini alle usanze dei beduini nomadi che abitano le steppe del Vecchio Oriente.
Violare il protocollo del conflitto e assicurarsi un domani di unità e prosperosa condivisione, per rinascere tutti insieme sotto la stella di David, sei punte da cui ricominciare abbattendo i confini di sentieri lastricati di vergogna ed orgoglio. Questo deve spingerci ad andare oltre, continuare a camminare non facendo caso né alle pietre che feriscono i nostri piedi né alle lancinanti spine che sfiancano le nostre speranze. Spine di sofferenza, di un’assetata verità che odora di fede, spine da coprire sullo stelo di una rosa che va fatta rifiorire.