«Niente di quel che mi accade mi appartiene, niente è mio» dice l’Io quando si persuade di non essere di qui, di aver sbagliato universo e di non avere scelta se non fra l’impassibilità e l’impostura»

(Emil Cioran, La caduta nel tempo, 1964)

Sebben io diparti la mia mente dai miei passi, voglia iddio che la mia meta non si foggi in due, ma resti una sola: purché sia somigliante alle mie aspettative…

Io non posso far rassegna di tutti i miei pensieri e catalogarli secondo le ispirazioni, senza cadere nel disagio di un rammarico o di un ripensamento qualora, all’inattesa “pioggia”, mi venga a mancare un ombrello protettivo, fatto di ponderatezze e riflessioni.

L’esser di vitale importanza, per ciò che la coscienza indica come prerogativa essenziale e immergersi, per sondarne le basi, diventa ufficio preminente, qualora l’Io trascendente lo richieda…

Esame dopo esame… non si può superarli tutti… se si arriva alla meta “impreparati” e l’esaminatore sarà Dio. A quel punto non occorrerà dissertare per esporre la nostra tesi poiché ci troveremmo davanti a colui che l’avrà già letta…

La promozione o la bocciatura non sarà questione di mancanza di sapere, né di conoscenza appresa, né di erudizione e né di perizie maturate, ma di spessa “fede” nutrita nell’animo e delle “orme” lasciate durante il nostro percorso. Mantener fede significa averla in qualcuno oppure in qualcosa a cui, sentimentalmente o vocalmente si è promesso impegno, onesto e giammai rinunciabile.

Il vincolo a mantener la parola data, a scanso di equivoci lassisti, volge a completare un quadro dentro il quale il rapporto umano non ne debba temere le conseguenze, qualora, per fatalità non volute e né cercate, giungesse una “mano aliena” a sbilanciare l’obbligo preso, nella sua buona riuscita.

Se ognuno di noi si accomodasse sugl’immeritati allori, soddisferebbe un “Io” avulso dalla realtà e lascerebbe, il cocchio del sapere, sbarazzato in una rimessa di inutilità e vanità. Nemmeno verrà presa in considerazione, la foga, qualora si decidesse d’intraprendere un fine, adoprando il “metro lungo” che ci porti fuori misura al buon raggiungimento dello scopo. Questo alla pari di chi, con impeto, vuol saltar sulla groppa di un mulo e ritrovarsi, di esso, sull’altro fianco. Il metodo persuasivo ed efficace sarà sempre il raziocinio: il criterio con cui si affrontano le situazioni nei giusti momenti, per appianarle.

Divagando con lo scritto, saltando di palo in frasca, si allena la mente a coltivare pensieri vaganti appunto, accompagnandoli per “penna”, scritto dopo scritto, in un rimuginare di fantasiose illazioni: congetture del momento che montano, attivano e rinvigoriscono l’Io mentale.

Rimanere angusti, tra il dire e il fare, si rischia di arrestare la “vita”, lasciando che il “tempo” fluisca, senza coinvolgerla. Questo dà adito ad un drenaggio della nostra immagine con la conseguente essicazione di ogni nostro spirito di partecipazione e di impresa che, alla fine, ci escluderanno dalla narrazione che si farà del nostro tempo.

Navigare bene dunque, con un nocchiere capace e disinvolto sopra un mare, se pur agitato di problemi, ci potrà approdare sull’altra “sponda”. Ci troveremmo coi piedi per terra e, voltandoci indietro, potremmo ammirare il percorso compiuto da un’altra angolazione e prospettiva. Ecco l’immagine che si potrà ricavare, scavando e leggendo tra la risma di fogli già scritti nella nostra memoria, per notarne gli ostacoli superati della nostra avvenuta percorrenza.

Avremo appreso appieno, educandoci, ancor prima di educare il prossimo, mettendo da parte la presunzione, la vanità di poterlo fare altrimenti, senza incorrere all’Io appariscente e di cattiva intelaiatura…

Posto che si possa avverare l’impensabile, affidandoci al caso fortuito, piuttosto che studiarne in precedenza la fattibilità: si parterebbe già con arti amputate, escludendo l’intelletto.

Le trame di un progetto s’ascondono nel nostro cervello e non certo per vergogna di esprimersi, ma principalmente a causa della nostra ritrosia a non concedere all’Io pragmatico, uno sbocco all’”aria aperta” per ossigenarsi di creatività concrete.

Ancor prima di seminare bisogna che si prepari il “campo”, cangiando il suo “volto”. Lo si fa dopo aver temprato il vomere dell’aratro e ben nutrito il destriero che lo tenderà, solco dopo solco, al banchetto nuziale… convivio col seme soprasensibile alla vita: rinunciando al tedio di un eterno rimando, per la copula con l’Io ispirato, pel nuovo, comune fiorire.


FontePhoto by Joshua Earle on Unsplash
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Salvatore Memeo è nato a San Ferdinando di Puglia nel 1938. Si è diplomato in ragioneria, ma non ha mai praticato la professione. Ha scritto articoli di attualità su diversi giornali, sia in Italia che in Germania. Come poeta ha scritto e pubblicato tre libri con Levante Editori: La Bolgia, Il vento e la spiga, L’epilogo. A due mani, con un sacerdote di Bisceglie, don Francesco Dell’Orco, ha scritto due volumi: 366 Giorni con il Venerabile don Pasquale Uva (ed. Rotas) e Per conoscere Gesù e crescere nel discepolato (ed. La Nuova Mezzina). Su questi due ultimi libri ha curato solo la parte della poesia. Come scrittore ha pronto per la stampa diversi scritti tra i quali, due libri di novelle: Con gli occhi del senno e Non sperando il meglio… È stato Chef e Ristoratore in diversi Stati europei. Attualmente è in pensione e vive a San Ferdinando di Puglia.