Fenoglio arriva come un’alba letteraria dopo il tramonto di una Italia dannunziana, decadente e servile: il suono delle parole prima del significato.
È uno scrittore che prima di scrivere di un fucile che spara, di un uomo messo al muro, dell’innocenza e della bellezza sopraffatte dalla guerra, prima ha vissuto ogni cosa. È stato la stanza piena di ricordi in cui altri, scrittori e intellettuali del suo tempo, hanno faticato ad accomodarsi forse spaventati da tanto talento, da tanta sincerità e crudezza, dai dettagli, dalle parole che diventano rappresentazione quasi filmica. Un esempio di quanto fosse stato frainteso è una critica scritta dal premio Nobel Eugenio Montale.
Prima permettetemi cortesemente di anteporre questa vicenda storica.
1976, si avvicina il processo in Corte d’Assise a Torino contro Renato Curcio e i vertici delle Brigate Rosse. Gli imputati dichiarano di non avere nulla da cui difendersi e revocano il mandato ai loro difensori; come se non bastasse minacciano apertamente gli avvocati intenzionati a diventare difensori d’ufficio.
Fulvio Croce decide così di accettare l’incarico. È il Presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati del foro di competenza e, secondo il Codice di procedura penale, in seguito alla mancanza dei difensori d’ufficio deve essere lui a dover ricoprire quel ruolo. Cinque giorni prima dell’inizio del processo, il 28 aprile 1977, quattro terroristi delle Brigate Rosse aspettano Croce sotto il suo studio legale e lo uccidono con cinque colpi di pistola.
Dopo l’omicidio di Croce, molti giurati popolari sorteggiati per il processo, si defilano. In molti presentano un certificato medico in cui vengono indicati come “affetti da sindrome depressiva”, pertanto inadatti a svolgere la loro funzione di giudice popolare.
Una parte “colta” dell’opinione pubblica li definisce “vili”.
Gli scrittori Leonardo Sciascia e Eugenio Montale difendono pubblicamente la scelta di tali “vili”. Montale rilascia una intervista al Corriere della Sera in cui ammette che persino lui avrebbe avuto paura a fare il giudice nel processo di Torino: “Non si può chiedere a nessuno di essere un eroe”.
Gli risponde lo storico e magistrato Alessandro Galante Garrone che su La Stampa in un editoriale definisce penose e inaccettabili certe parole soprattutto perché scritte da un senatore a vita.
Italo Calvino sul Corriere della Sera ricorda, invece, il ruolo dello Stato e dei “cittadini democratici che non si arrendono”. Lo scrittore ribadisce che quando lo Stato si dimostra inadeguato, negli italiani deve nascere quel sentimento di solidarietà civile che si riassume ne: “lo Stato siamo noi”.
Sempre sul Corriere della Sera, interviene lo scrittore Leonardo Sciascia, solidale con le parole di Montale e con le paure dei cittadini chiamati a essere dei giudici popolari: “Per questo Stato non farei il giudice popolare”.
Ebbene Eugenio Montale scrive questo su Fenoglio nel 1959: «Cercheremo invano i connotati spirituali di Beppe Fenoglio nel suo libro Primavera di bellezza. Fenoglio è uno di quegli scrittori che lasciano parlare i fatti, che curano molto la regia e il montaggio della narrazione, che ricalcano fedelmente l’espressione parlata, ma non si permettono mai di intervenire direttamente. Tendono, insomma, a trasformare la cronaca in poesia. Si tratta di un nuovo verismo, più o meno engagé, più o meno “arrabbiato”, e nel caso di Fenoglio bisogna dire che se egli segue questa tendenza lo fa con molta moderazione e che di un impegno sociale, di un giudizio che serva da sottofondo alla narrazione in lui non v’è traccia. Breve è la storia di Johnny, il suo personaggio. È un giovanissimo studente piemontese, ha studiato l’inglese e pensa in inglese, forse per un’oculata simpatia per l’“invasore britannico”. Chiamato alle armi, allievo ufficiale a Moana e poi a Roma, Johnny diserta dopo l’armistizio e riesce a raggiungere un gruppo di partigiani, ma è colpito a morte, se abbiamo ben capito, in un’azione di contro rappresaglia. Il quadro è ampio, folto di figure disegnate con una certa abilità e la narrazione scorre veloce. Fra i molti libri che, traendo ispirazione dall’ultima guerra, hanno inteso descrivere obiettivamente un clima di sfacelo e crisi morale di una generazione sacrificata, questo di Fenoglio può trovare un posto onorevole. A lettura finita resta però il dubbio che l’interesse del documento, nel suo libro, superi di molto il valore artistico. Come molti altri scrittori d’oggi, Fenoglio ha imparato a narrare, e questo è il lato positivo di tutta una generazione (Fenoglio ha trentasette anni). Tuttavia, imparare una tecnica, non è ancora imparare un’arte: ne è solo, semmai, il presupposto. Si può persino supporre che in certi casi il “saper fare” iniziale, sia già una partenza sbagliata. Per dir tutto, manca nel libro di Fenoglio il senso di una necessità; la bravura vi sostituisce il riflesso di una ispirazione che in lui fu certo vero (se il libro ha elementi autobiografici) ma nel corso del tempo si è alquanto raffreddata»
A questo punto devo una spiegazione. Questo articolo o insieme di parole o scritto lo devo al libro “Beppe Fenoglio, Tutti i romanzi”, a cura di Gabriele Pedullà, Giulio Einaudi Editore, 2012. Senza non avrei potuto trovare ispirazione.
La maggior parte della letteratura, narrativa e saggistica poggiata sugli scaffali di tutte le librerie del mondo, con buona probabilità, è solo un peto (rumore) profumato (apparenza). Fenoglio arriva come un’alba letteraria dopo il tramonto di una Italia dannunziana, decadente e servile: il suono delle parole prima del significato.
Fenoglio è uno sconosciuto, legge tanto e scrive ovunque, conosce bene l’inglese. Gli si è insinuato dentro il tarlo della scrittura. Fuma come un disperato e i colpi di tosse sono attutiti dal rumore del battere sui tasti della macchina da scrivere che sua madre, donna senza istruzione ma intelligente, prende in prestito. Detesta l’apparenza, le prepotenze e i soprusi. Crede, ha fede. Lui stesso afferma: «Io credo in Dio, ma ognuno se lo immagina come può, e il mio Dio non è quello dei preti». Non accetta la Chiesa come istituzione, ma ne apprezza gli insegnamenti del Vangelo, il bisogno do giustizia morale e sociale, al servizio degli altri uomini. Fenoglio ha il coraggio della sua vita. Premesse che ne farebbero un presunto comunista mentre in realtà resta un nostalgico della monarchia, un badogliano. Al referendum del 2 giugno 1946 vota difatti per la monarchia.
Fenoglio, lo descrivono come un uomo alto, asciutto, dal viso scavato e da un “imbarazzante” (ma senza colpe) naso alla Cyrano. Non propriamente bello ma comunque affascinante. Non ama parlare molto, preferisce osservare in un angolo, in silenzio. Alle elementari è uno studente taciturno, disturbato da una lieve balbuzie che crescendo non passerà. Al Liceo si diploma con 9 in italiano, 8 in latino, 8 in greco, 8 in storia, 8 in filosofia, 8 in arte, 7 in cultura militare, 7 in educazione fisica, 6 in matematica, 6 in fisica.
Si iscrive alla Facoltà di Lettere dell’Università di Torino. Supera otto esami in due anni. Letteratura inglese: 24; Storia della musica: 27; Geografia: 22; Storia della filosofia: 24; Storia romana: 30; Storia moderna: 27; Filologia romanza: 27; Storia medievale: 26.
Purtroppo non termina gli studi, con grande dispiacere della madre, con cui litiga spesso: per i soldi che non ci sono, per il lavoro che non cerca, per il vizio incontrollato del fumo e appunto per la laurea mancata che suo fratello e sua sorella invece conseguiranno negli anni a venire.
Durante l’estate del 1950 spedisce all’Einaudi il suo romanzo “La paga del sabato”, ricevendone il giudizio favorevole di Calvino, che lo suggerisce al critico letterario siciliano Elio Vittorini cui purtroppo non piacerà.
Oreste del Buono, lo ricorda così: «Fenoglio era un tipo ombroso, un orso. Me lo ricordo al convegno dei “Giovani scrittori”, a Roma, nel ’52. Se ne stava sempre per conto suo. Calvino, seppur balbuziente, folleggiava. Lui era un timido e aveva un sistema tutto suo. Era modesto per regolamento, un rigorista, un doverista. Aveva l’aria del militare smobilitato. Era il tipo che se ne sta sempre zitto e poi se ne esce all’improvviso con una battuta buona»
Molto del suo valore umano e letterario si ritrova in quanto dichiarato in una risposta alla domanda sottopostagli da Elio Filippo Accrocca per il volume Ritratti su misura di scrittori italiani, Sodalizio del libro, Venezia 1960. «Per quanto cerchi, non trovo alcun aneddoto di qualche sapore relativamente alla genesi e alla pubblicazione dei miei libri. Potrà forse interessare questa piccola rivelazione: Primavera di bellezza venne concepito e steso in lingua inglese. Il testo quale lo conoscono i lettori italiani è quindi una mera traduzione. La critica mi ha seguito e mi segue con una certa attenzione, in misura superiore, debbo dire, all’aspettativa di uno scrittore appartato e “amateur-like” quale io sono. Le recensioni a tutt’oggi sono numerose e, per quel che riguarda la sostanza, variano dal moderato elogio alla stroncatura selvaggia. In linea generale, il mio atteggiamento di fronte alle sentenze della critica è quello già configurato da altro scrittore e comune, penso, a tutti gli artisti; stupore per quello che i critici sanno trovare nel tuo lavoro e altrettanto stupore per quello che non sanno trovarci. Scrivo per un’infinità di motivi. Per vocazione, anche per continuare un rapporto che un avvenimento e le convenzioni della vita hanno reso altrimenti impossibile, anche per giustificare i miei sedici anni di studi non coronati da laurea, anche per spirito agonistico, anche per restituirmi sensazioni passate; per un’infinità di ragioni, insomma. Non certo per divertimento. Ci faccio una fatica nera. La più facile delle mie pagine esce spensierata da una decina di penosi rifacimenti. Scrivo with a deep distrust and a deeper faith»
Nel 1963, un cancro ai polmoni lo sta uccidendo. In una stanza di ospedale, consapevole di dover morire, consegna a sua moglie questo biglietto di addio per la sua piccola figlia Margherita: “Ciao per sempre, Ita mia cara. Ogni mattina della tua vita io ti saluterò, figlia mia adorata. Cresci buona e bella, vivi con la mamma e per la mamma, e talvolta rileggi queste righe del tuo papà, che ti ha amata tanto e sa di continuare ad essere in te e per te. Io ti seguirò, ti proteggerò sempre, bambina mia adorata, e non devi mai pensare che ti abbia lasciata. Tuo papà”»
Italo Calvino nella prefazione alla ristampa del suo libro “Il Sentiero dei nidi di ragno” scrive per il suo amico: «Il più solitario di tutti riuscì a fare il romanzo che tutti avevamo sognato, quando nessuno più se lo aspettava, Beppe Fenoglio, arrivò a scriverlo e nemmeno a finirlo (Una questione privata), e morì prima di vederlo pubblicato, nel pieno dei quarant’anni. Il libro che la nostra generazione voleva fare, adesso c’è, e il nostro lavoro ha un coronamento e un senso, e solo ora grazie a Fenoglio, possiamo dire che una stagione è compiuta, solo ora siamo certi che è veramente esistita: la stagione che va dal Sentiero dei nidi di ragno a Una questione privata. Una questione privata (che ora si legge nel volume postumo di Fenoglio Un giorno di fuoco) è costruito con la geometrica tensione d’un romanzo di follia amorosa e cavallereschi inseguimenti come l’Orlando furioso, e nello stesso tempo c’è la Resistenza proprio com’era, di dentro e di fuori, vera come mai era stata scritta, serbata per tanti anni limpidamente dalla memoria fedele, e con tutti i valori morali, tanto più forti quanto più impliciti, e la commozione, e la furia. Ed è un libro di paesaggi, ed è un libro di figure rapide e tutte vive, ed è un libro di parole precise e vere. Ed è un libro assurdo, misterioso, in cui ciò che si insegue, si insegue per inseguire altro, e quest’altro per inseguire altro ancora e non si arriva al vero perché. È al libro di Fenoglio che volevo fare la prefazione e non al mio».