“Appartengo a quelli che lontano se ne sono andati, ma sempre ritornano, però il seno della terra più non li trattiene, che già li hanno svezzati di fuori. Partono e continuano eternamente a tornare”

(Vinicio Capossela)

Com’è un uscio? Ha una sola faccia, tutta grigia, insignificante, non è dentro e non è fuori, non è carne e non è pesce, non è sale e non è pepe.

Com’è un uscio di emigrante? Double face, testa e croce, millemila colori, il caleidoscopio.

Il lato di testa è indipendente, svincolato, autonomo, veloce: salta fra le montagne come fossero sassolini, spala la neve, timbra il badge sempre in orario, non gli serve il tempo per respirare perché il tempo non ce l’ha e semplicemente non ne sente la mancanza.

È bianco come la neve, verde come le distese di prati, bianco come le margherite, giallo come la polenta, plumbeo come le nuvole, fucsia come l’atmosfera dei gradi sotto zero.

Il lato di croce è una croce, quella da cui non si scende: meridionale all’ennesima potenza, proprio terrone al cubo, il dialetto perfettamente incastonato nel forbito linguaggio italiano, la pianura ad innescare la pigrizia della lentezza, la totale assenza di fretta e l’odore della carne arrosto nell’aria. È blu come il mare, giallo come il sole, verde come i fichi, nero come i ricci, rosso come il retro del frutto dei taratuffi, bianco come i latticini, i polpi e gli allievi (che non sono i miei alunni). Tutti i colori, poi, confluiscono nella tiedda di patate riso e cozze, anche se sono altri gli ingredienti.

‘Testa o croce’ è una scelta che non esiste.

‘Testa e croce’ sono insieme e sanno solo scornarsi.

Quando schiatta uno, risorge l’altro. Fanno a gara e nessuno vince. Poi, arriva il momento di partire e nessuno gioca più. Ti stai crepando e stai crepando. Segnato e rassegnato: muori.

Ti muovi da casa per andare a casa. Ti stiri al punto da essere plastico e lungo quanto uno stivale: senti che finirai a brandelli.

E da buon bersaglio sarai premiato.

Dapprima puntato.

Colpo sferrato.

Centro colpito.

Perché mica si sfugge: così è vissuto.

Ciao casa. Vado a casa. E intanto, resto a casa. Immobile.


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Sono una frase, un verso, più raramente una cifra, che letta al contrario mantiene inalterato il suo significato. Un palindromo. Un’acca, quella che fondamentalmente è muta, si fa i fatti suoi, ma ha questa strana caratteristica di cambiare il suono alle parole; il fatto che ci sia o meno, a volte fa la differenza e quindi bisogna imparare ad usarla. Mi presento: Myriam Acca Massarelli, laureata in scienze religiose, insegnante di religione cattolica, pugliese trapiantata da pochissimo nel più profondo nord, quello da cui anche Aosta è distante, ma verso sud. In cammino, alla ricerca, non sempre serenamente, più spesso ardentemente. Assetata, ogni tanto in sosta, osservatrice deformata, incapace di dare nulla per scontato, intollerante alle regole, da sempre esausta delle formule. Non possiedo verità, non dico bugie ed ho un’idea di fondo: nonostante tutto, sempre, può valerne la pena. Ed in quel percorso, in cui il viaggio vale un milione di volte più della meta ed in cui il traguardo non è mai un luogo, talvolta, ho imparato, conviene fidarsi ed affidarsi.