
È sicuramente deprecabile che la magistratura debba sopperire all’inefficienza della politica, ma con il suo gesto Emiliano ha ricordato che la salute viene prima del lavoro…
Ilva: il dramma dei Tarantini, a tutt’oggi, si consuma tra due polarità che dovrebbero coesistere, ma che purtroppo risultano ancora inconciliabili: la tutela della salute pubblica e la conservazione del posto di lavoro. I due parametri sociali, indicativi del livello della qualità della vita, ruotano intorno all’asse dell’Ilva, lo stabilimento siderurgico che, nel bene e nel male, ha costituito negli ultimi decenni l’ossatura della storia tarantina in quanto, se da un lato ha offerto opportunità occupazionali, dall’altro ha rappresentato un grave e letale pericolo per la salute pubblica, oltre che un attentato distruttivo per l’ambiente ed un elemento di sconquasso dell’ecosistema: gli altiforni dalle ciminiere sprigionano colonne di fumo di gas tossico che pesa, come una cappa di piombo, soprattutto sul rione Tamburi, sorto in prossimità dell’azienda, mentre dai parchi minerali a cielo aperto, quando soffia il vento, si sollevano micidiali particelle di polvere rossa avvelenata.
La storia dell’Ilva è una storia di deregulation: la salute di persone e animali, la salubrità dell’aria, il rispetto dei beni storici, artistici e paesaggistici sono stati sempre sacrificati ai posti di lavoro. Basta scorrerne le tappe più emblematiche.
Nell’estate del 2010 il ministro dell’ambiente del governo Berlusconi, Stefania Prestigiacomo, autorizza con un decreto l’innalzamento dei limiti di emissione per il benzo(a)pirene in tutte le città che superano i 150.000 abitanti; nella pratica operativa il decreto è destinato a garantire margini più ampi di manovra all’Ilva di Taranto.
Nell’estate del 2012 il pool di inquirenti della Procura tarantina, guidati da Franco Sebastio, dispone il sequestro dell’area a caldo, ritenuta causa di emissioni mortali, ed avvia un’indagine sui Riva, proprietari dell’azienda, per disastro ambientale; ma Corrado Clini, ministro del governo Monti, con un decreto, annulla il sequestro ed autorizza il ripristino della produzione per altri 36 mesi in attesa di adeguamento degli impianti alle normative dell’AIA (Autorizzazione Integrata Ambientale).
Nel 2013 il nuovo esecutivo guidato da Enrico Letta nomina come commissario straordinario Enrico Bondi, già scelto dai Riva pochi mesi prima come amministratore delegato, il quale ottiene dal governo il potere di incrementare il capitale dell’Ilva chiedendo al gruppo Riva e, in caso di rifiuto, ad investitori terzi, di partecipare all’operazione. Lo stesso governo assesta un nuovo e terribile colpo alla salute dei Tarantini: un emendamento al decreto legge sulla Terra dei Fuochi concede all’Ilva l’autorizzazione a smaltire i rifiuti della produzione nelle discariche interne allo stabilimento: un regalo che consente all’azienda, ormai gestita dallo Stato, di risparmiare milioni di euro.
Renzi, subentrato a Letta, appena giunto a Palazzo Chigi, nazionalizza il polo industriale annunciando che, prima di rimetterlo sul mercato, sarà utilizzato oltre un miliardo di euro, frutto della negoziazione tra la famiglia Riva e l’Ilva, per il risanamento della città. Contemporaneamente vara un insieme di misure che permettono ai gestori dello stabilimento siderurgico di osservare solo l’80% delle prescrizioni AIA e, dulcis in fundo, nel giugno 2016, con un decreto, concede una proroga di 16 mesi per l’attuazione delle prescrizioni suddette prevedendo per il nuovo proprietario la possibilità di modificare, anche in maniera consistente, il piano di risanamento ambientale.
Gentiloni, nel frattempo, succede a Renzi dimissionario nella guida dell’esecutivo. È del 29 settembre scorso, all’indomani dell’acquisto dell’Ilva da parte degli indiani di Arcelor Mittal, supportati da Intesa-San Paolo e dal gruppo Marcegaglia, il decreto governativo di prorogare nel 2023, cioè di ben sei anni, il termine di attuazione delle prescrizioni ambientali già scadute e rimaste inottemperate.
Di qui la decisione del governatore della Puglia, Michele Emiliano, e del sindaco di Taranto, Rinaldo Melucci, di impugnare davanti al TAR il decreto; di qui la decisa reazione del ministro dello sviluppo Carlo Calenda, cui si è aggiunto il ministro dell’ambiente Galletti, complici i sindacati, che accusano Comune e Regione di fare “una sistematica ed irresponsabile opera di ostruzionismo”, lasciando colpevolmente senza lavoro migliaia di operai.
È sicuramente deprecabile che la magistratura debba sopperire all’inefficienza della politica, ma con il suo gesto Emiliano, da tempo fautore della progressiva “decarbonizzazione” dell’Ilva come antidoto ai mali della città, ha focalizzato la ratio che ha ispirato e continua ad ispirare i numerosi decreti governativi succedutisi nel tempo, come le gride di manzoniana memoria: l’Ilva va tenuta in piedi, costi quel che costi in termini di malattie e di decessi per cancro, perché lì lavorano migliaia di persone.
Si può condividere una “filosofia” di questo tipo?