Il contributo di Mauro Ceruti e Francesco Bellusci
Per chi dedica tutta una vita a interrogarsi pascalianamente su quel ‘garbuglio’ che siamo come uomini col portato di ‘contraddizioni, di incertezze e di errori’ che ci caratterizzano, sino a ergerci spesso a ‘giudici di tutte le cose’ e poi a scoprirci come ‘vermi della terra,’ e a cercare di ‘sbrogliarlo’ insieme al fatto, a dirla con Robert Musil, del perché nello stesso tempo produciamo ‘Bibbia e cannoni’, arriva l’impellente bisogno di voler ‘scrivere io questo libro’ di Mauro Ceruti e Francesco Bellusci, Umanizzare la modernità. Un modo nuovo di pensare il futuro (Milano, Raffaello Cortina Ed., 2023), come viene riportato da parte di Edgar Morin sulla fascia gialla che accompagna il volume; questo lavoro, infatti, ci aiuta a mettere in atto un processo di severa e nello stesso tempo necessaria autocritica in quanto avvertiamo sempre in modo più cogente, anche rispetto al recente passato, di avere a che fare con crisi globali che investono gli esseri viventi dell’intero pianeta e, soprattutto, il fatto che ne siamo noi stessi i maggiori responsabili per le scelte operate, a partire dal campo del pensiero stesso. Ma per coglierli come “eventi rivelativi”, come li chiamano i due autori, che costringono a interrogarci in prima persona sulle cause che li hanno prodotti e senza continuare a mentire sui fatti reali, viene in aiuto il pensiero complesso, o meglio l’esperienza della complessità che si presenta frutto del fatto di abitarla quotidianamente nel senso di Simone Weil, come viene delineato del resto in un loro precedente lavoro Abitare la complessità del 2020, sempre scritto a quattro mani (La complessità come evento di verità, 9 aprile 2020 e Come abitare la complessità, 26 novembre 2020); in tal modo l’approccio ai problemi della vita secondo complessità ha trasformato in risorse esistenziali la compenetrazione tra pensiero scientifico e pensiero filosofico e come erede in questo del più sano pensiero critico europeo, ‘rivela’ il suo volto agapico in senso giovanneo del termine nel liberarci in primis, sul terreno più strettamente ermeneutico, dai diversi ‘restringimenti ideologici’ come li ha chiamati Papa Benedetto XVI, che hanno subìto la scienza, la filosofia e la stessa esperienza di fede.
Ma dove il pensiero complesso, col metterlo criticamente in atto nelle diverse articolazioni con le vie che apre e le relative sfide che porta con sé, dimostra maggiormente la dimensione agapica è nel rendersi un indispensabile e a volte insostituibile disinfettante nei confronti delle posizioni unilaterali, sempre in agguato, che sfociano inevitabilmente in ideologie assolutiste con i loro esiti quasi sempre tragici (La complessità come disinfettante, 17 aprile 2020); nello stesso tempo, per fare nostra l’idea di verità, presente nel X libro delle Confessioni di Sant’Agostino, la ragione complessa col suo portato di ‘eventi rivelativi’ può fungere, oltre da veritas lucens nei confronti del reale, da vera e propria veritas redarguens nel senso che, pur mettendoci di fronte ad una verità che non piace come molte delle situazioni odierne dovute al nostro essere un ‘garbuglio’, può arrivare ad illuminarci sulle nostre responsabilità e a non comportarci più da semplici spettatori. L’’aver voluto io scrivere io questo libro’ Umanizzare l’umanità, cioè noi come singoli e come comunità, pertanto, si nutre di questa tensione etico-agapica del pensiero complesso che può in tal modo configurarsi come un principio maius quam cogitari possit, nel senso di Sant’Anselmo d’Aosta, per dare voce in modo strutturale ai bisogni del nostro tempo attraversato da “crisi globali che mettono in discussione il futuro dell’umano” e creare nello stesso tempo le condizioni per un percorso diverso. Il volto agapico della complessità ‘rivela’ la prima posta in gioco relativa al fatto che ci fa prendere atto che la nostra era, chiamata Antropocene, è “al bivio” in quanto portatrice di un ‘grido’ che chiede urgentemente un intervento immediato; ed in tal modo ci è di aiuto nel vederlo come espressione di qualcosa di ‘muto che geme in tutti gli esistenti che popolano la terra’ come viene detto in Il grido, a cura di Alessandro Clemenza e Marco Martino ( DDOT- 4, Roma, Città Nuova, 2022). Ed il primo passo da fare è quello di raccogliere tale grido e coglierne ‘l’istanza, ineludibile’ quella di ‘un nuovo pensare’, di curare il pensiero teso ad “un modo nuovo di pensare il futuro” come affermano a loro volta Ceruti e Bellusci a più riprese, all’esigenza di costruire un rinnovato Antropocene “che, sulla scia delle scienze ecologiche, annulla la frattura tra natura e cultura, tra storia umana e storia della vita e della Terra” . Tutto questo richiede “nuove responsabilità e nuove attività di cura” col risultare ancora indispensabili da una parte la “raccomandazione di Spinoza”, tesa alla retta comprensione dei fatti umani senza “prendere partito”, e dall’altra “lo sguardo inquieto e complesso ante litteram di Pascal”; per curarci e mettere in atto un percorso teso ad “umanizzare la modernità” col liberarci da molte illusioni, tra cui quella di essere noi il perno fondamentale di tutto, occorre metabolizzare in pieno ciò che il più sano pensiero scientifico, soprattutto quello della biologia degli ultimi decenni e della simbiontologia in particolar modo, ha messo in cantiere e cioè il fatto che siamo immersi in un reseau, in una rete di relazioni vincolate e intrecciate e di storie condivise, dove siamo tali ‘grazie ad altri… e non siamo mai stati individui’ a dirla con Isabelle Stengers, in quanto vigono processi di ‘coimplicazione’, ‘coappartenenza’, ‘coesistenza’, ‘coevoluzione simbiotica’, ‘codipendenza’. Questo decentramento ha come risvolto agapico il fatto di farci prendere coscienza della “nuova condizione umana, e, in particolare, della complessità del rapporto uomo-natura” e ci permette di “passare dall’antropocentrismo deviato, violento e predatorio, a un antropocentrismo della responsabilità”; ‘l’aver voluto scrivere io questo libro’, pertanto, risponde al nostro bisogno di liberazione da un ’umanesimo senza ritegno’, come lo chiamava Maurice Merleau-Ponty, che deve “cedere il passo all’umanesimo planetario” che si presenta come “un fatto antropo-cosmologico” in quanto si prende coscienza di un ‘evento rivelativo’ non di poco conto che “la fragilità e la precarietà della Terra diventano lo specchio della fragilità e della precarietà dell’umanità planetaria”. La coscienza del nuovo senso di planetarietà non può non portare “all’umanesimo della cura”, a prendersi cura degli strazi che la Terra-sistema sta attraversando e pone l’esigenza di una rigenerazione ab imis della modernità, come era ai suoi esordi col portato ‘di saggezza dell’uomo del Rinascimento’ nel senso avanzato da Stephen Toulmin in Cosmopolis (Milano-Udine, Mimesis, 2022).
In tale processo di rigenerazione siamo tutti coinvolti come “umanisti planetari” e sia pure a fatica abbiamo imparato a disinfettare le nostre menti con ”immunizzarci dai dogmatismi della razionalità formale e calcolante”, frutto dell’hybris dell’onniscienza come l’ha chiamata Mauro Ceruti in un lavoro del 2014, col “tornare al dubbio per prendere congedo dalla certezza assoluta, senza smettere di cercare il vero”; ed il volto agapico della complessità si rivela anche nella maggiore consapevolezza del fatto di dover ritornare a fare i conti con “l’ignoranza, l’ignoto, l’imprevedibile” e con” dialogare con essi” per poter tra l’altro recuperare “lo spirito ragionevole, flessibile, pluralista degli umanisti rinascimentali, accantonato dal razionalismo seicentesco” e la loro ‘esuberanza cognitiva’ come la chiamava Hélène Metzger. Oggi si hanno a disposizione tutti gli strumenti concettuali ed esistenziali che l’umanesimo planetario, frutto di “una forma nuova di intelligenza per abitare la complessità”, agapicamente mette in campo nel permettere di pensare in modo strutturale e deciso che “la relazione precede l’esistenza, di pensare che ciò che esiste… in verità coesiste”; e, pertanto, “il nostro tempo non ha bisogno di rivoluzioni, ma di cambiamento del paradigma di pensiero e di civiltà”, che faccia dell’interdipendenza una condizione di base per eliminare le logiche di dominio “nel pianeta e per il pianeta”. Per questo obiettivo c’è “bisogno di una scienza della vita e di una politica della vita” per passare “da dominatori della natura a dominatori del proprio dominio”, in quanto “la posta in gioco è il dominio del dominio” a cominciare dal controllo della tecnologia e dalla tecnoscienza che vanno liberate dal mito del paradigma tecnocratico o ‘soluzionismo tecnocratico’ in quanto nel fare “apparire il dato (la materia, il vivente, l’uomo) trasformabile… procedono nell’ignoranza delle proprie implicazioni ecologiche e antropologiche”; l’umanesimo della cura, pertanto, non poteva non approdare ad un esito politico di largo spettro col richiedere “un quadro proiettato verso una Cosmopolis”, dove occorre coniugare sempre di più il potere con la responsabilità, come indicava già Simone Weil, responsabilità che aumenta proporzionalmente nel tempo dell’ingresso nell’Antropocene, tempo, come afferma Angelo Vianello in alcuni suoi lavori, caratterizzato dal fatto che tutto viene modificato in base ‘all’impatto dell’uomo sulla storia della Terra’ e dalla presa di coscienza dell’’evento rivelativo’ da parte dell’umanità e nello stesso tempo “paradossale di essere diventata una minaccia per se stessa” da porre le basi per una “involontaria comunità di destino”. A tal fine è necessario lavorare per introdurre “un nuovo ordine giuridico e politico planetario, un sistema di governo mondiale multilaterale e acentrico” che combatta “i rigurgiti pseudorassicuranti e terrificanti dell’infracomplessità, cioè di logiche di dominio puro o violento e di annientamento delle opposizioni”. ‘L’aver voluto scrivere io questo libro’ è un continuo spronarci a creare le basi per “trasformare e istituzionalizzare l’interdipendenza planetaria in un progetto solidale e in una cosmopoli, terminus ad quem” per arrivare ad un futuro possibile, con la coscienza che si ha a che fare con problemi vitali “dove nessuno è completamente al riparo, non c’è alternativa alla corresponsabilità di ciascuno per il destino di tutti”. L’esito politico dell’umanesimo planetario con la sua idea di futuro si rivela nell’essere “un umanesimo concreto” sorto nello “sgorgare ‘dalle viscere della necessità’”, a dirla con Ernesto Balducci, col portare in dote forti dosi di innovazione che sono la condizione imprescindibile per costruire “una comunità mondiale” anche se sono sempre in agguato deviazioni di diverso genere, che è un prezzo da pagare; ma “l’umanista planetario ed il progressista del XXI secolo si contraddistinguono per la volontà etica e pragmatica di ridurre al minino questo prezzo”.
Mauro Ceruti e Francesco Bellusci hanno dato voce insieme sia a tale volontà che al ‘grido’ di una umanità al bivio che, dopo le illusioni dell’Alta Modernità col suo approdo ad un modello di razionalità astratta e assoluta col correlato paradigma ‘westfaliano’ degli stati sovrani come l’ha chiamata Stephen Toulmin, deve rifare i conti con le fragilità e vulnerabilità che l’hanno sempre contrassegnata insieme alla presa d’atto della sua strutturale incompiutezza col farne una risorsa con più umiltà e non scartarla in quanto prima o poi si vendica, per usare un’espressione di Simone Weil; e nello stesso tempo deve coltivare ogni giorno “sentimenti di solidarietà e di fraternità” per fare emergere “una cultura ed un’etica planetaria” e capire, sulla scia di María Zambrano, che ‘il pianeta intero è la nostra casa’, che ‘ogni evento ha la sua ripercussione’, che ‘la vita è in tutti i suoi strati un sistema’ e che ‘facciamo parte di un sistema al momento chiamato genere umano’. E questo è stato conquistato con l’approdo al pensiero complesso che agapicamente ci mostra un percorso teoretico-esistenziale teso “verso l’umanità intera munita di un messaggio universale ed unificante”, percorso che si arricchisce col fare emergere “un inedito destino comune planetario“ con degli “imperativi pratici che tale emergenza impone” con l’uscire dall’età del dominio e capire nella sua estrema cogenza che “ l’uomo del futuro sarà uomo di pace, o non sarà, per dirla con Ernesto Balducci”. ‘L’aver voluto scrivere io questo libro’ Umanizzare la modernità è indice di un segnale che tutti avvertiamo, la necessità “di una profonda discontinuità nell’evoluzione della condizione umana”, di cui possiamo essere tutti diretti protagonisti, che può sgorgare dallo ‘sbrogliare il garbuglio’ che siamo e dalla ‘volontà del vero’ pur correlato al ‘cimitero di errori’, a dirla con Federigo Enriques, che nonostante tutto ci contraddistingue.