“Che cosa diventa un presuntuoso, spogliato della sua presunzione?
Provate a levare le ali a una farfalla: non resterà che un verme”.
(Nicolas de Camfort)

Per la morale cattolica, la superbia è uno dei sette vizi capitali, anzi è la “regina dei vizi”, secondo la definizione che ne dà S. Gregorio Magno.
La superbia è il mettersi al di sopra di sé, della propria persona per dominare sugli altri, per manovrare le loro coscienze e ridurli al nulla.
In altre parole, la superbia è la pretesa di innalzarsi oltre se stessi, gli altri e persino Dio.
È la grande illusione diabolica che vuole sostituirsi a Dio; è un’autonomia che si eleva sopra se stessa sfidando Dio, rompendo il limite creaturale e violando ogni confine morale.
Per dirla con Schopenhauer, l’amor proprio è il confondere i limiti del proprio campo visivo con i confini del mondo.
Insomma, chi è preda dell’orgoglio non sa o non si vuole stare al proprio posto! Si comprende dunque come l’orgoglio sia in buona sostanza una forma patologica di hýbris, di tracotanza, proprio di chi rifiuta di fare i conti con le debolezze e le ombre che lo abitano, di riconoscersi come una povera e fragile creatura.
Se non si contrasta con decisione tale passione, il rischio è quello di cadere in forme di malattia psichica, di vera e propria follia.
Ma questa patologia personale, diventa anche un male sociale, un morbo che appesta la convivenza civile. Nella nostra cultura che si nutre di potere e di dominio, di sovraesposizione in vista del successo, della cura dell’immagine, l’io diventa facilmente idolo, che la “cultura chiusa” nella sua torre d’avorio.
Ma la superbia alla fine che cosa è? Una farfalla senz’ali – direbbe lo scrittore francese da cui oggi è stata tratta la citazione sopra riportata-.
Per servirsi ancora di un’immagine, è curiosa un’altra considerazione destinata al presuntuoso da una scrittrice inglese dell’Ottocento nota con lo pseudonimo maschile di George Eliot. Per lei, la superbia: «È come un gallo convinto che il sole sorga per ascoltarlo cantare». Superbia e vanità s’intrecciano e lambiscono un po’ tutti, senza mai avvertirci che in agguato c’è il ridicolo.
Qual è allora il rimedio alla superbia? L’umiltà.
Se non saremo umili — ammoniva, infatti, un altro autore francese, Julien Green — Dio farà di noi degli umiliati. Vermi senza ali, appunto.
Quindi è bene far scendere dal trono il nostro io, prima che sia Dio — o la vita — a spodestarlo. Allora, la superbia liberi il nostro cuore e gli chieda scusa per il male che gli ha provocato. E magari lo richiami all’umiltà che è poco elogiata e il più delle volte scambiata per stupidità.


Articolo precedenteLa forza della politica: non pugno ma carattere
Articolo successivoLo spo(r)t della guerra
Nicola Montereale è nato a Trani (BA) il 1 Febbraio 1994 ed è residente ad Andria. Nel 2013 ha conseguito la maturità classica presso Liceo Classico “Carlo Troia” di Andria e nel 2018 il Baccalaureato in Sacra Teologia presso l’Istituto Teologico “Regina Apuliae” di Molfetta. Attualmente è cultore della materia teologica presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore (Milano) e docente IRC presso il Liceo Scientifico e Classico “A.F. Formiggini” di Sassuolo (Mo). Ha scritto diversi articoli e contributi, tra questi la sua pubblicazione: Divinità nella storia, Dio nella vita. Attraversiamo insieme il deserto…là dove la parola muore, Vertigo Edizioni, Roma 2014. Inoltre, è autore di un saggio di ricerca, pubblicato nel 2013 e intitolato “Divinità nella Storia, Dio nella Vita”.