Martino era nell’altra stanza e avvertì il fracasso…
Era lì che si mirava allo specchio e si toccava la pelle in ogni parte senza rendersi conto che gli anni, attraverso cui lui era passato, tra i tanti problemi lasciategli aveva anche modellato la fisionomia, tanto che nemmeno sua madre l’avrebbe riconosciuto, se fosse stata ancora in vita. Forse da quella marcata cicatrice sul ciglio dell’occhio sinistro, l’avrebbe identificato. Se l’aveva procurata durante un’escursione in campagna, con i ragazzi della sua età tra i quali ve n’era uno talmente impertinente per cui non vi era motivo, in quelle occasioni, pensare che, alla fine, sarebbe finita bene. Non certamente per Martino il quale ogni volta se ne tornava a casa con qualche escoriazione in più.
Era cominciata con la sottomissione in casa che, a parer dei vicini, andava oltre ogni forma di educazione: troppo possessivi e severi, i genitori, con il ragazzo. Il comportamento di questo, quando usciva con i compagni, era pure remissivo, di soggezione per cui non vi era una vera crescita individuale: nessuna personalità insomma, in Martino.
Ora, con i suoi settantacinque anni davanti allo specchio lui ascoltava con molta attenzione ogni singola parola che il soggetto riflesso gli comunicava: alla stessa maniera come lui faceva con i suoi genitori e di quegli impertinenti compagni di gioco. Non udiva nessun grido imperioso, però, alcun suono, ma le parole gli giungevano agli occhi attraverso il movimento delle labbra del riverbero fatta eccezione quando questo gli girava le spalle. Era lui stesso che le girava allo specchio e che immaginava pure la figura riflessa con le spalle rivolte alla sua immaginazione. In quel caso gli si attenzionavano tutti i suoi sensi, in condizione di afferrare per intero il ragionamento. Più che una vera esposizione d’idee, erano frammenti sconclusionati di suoni muti che lui percepiva. Con la differenza di penetrare lo spazio esistente, tra la fonte ricevente e l’emittente, con una tale celerità e comprensiva quiete che nemmeno le mosche, quando qualcuna di queste s’intrometteva, sulla levigata superficie riflettente, nulla captava se non il tacito, ovattato eco di qualche assenso, o diniego, pronunciato al solo scopo di contraddire ciò che non si era detto.
Le mute parole, dopo il breve tragitto, sembravano si appiccicassero all’argentea superficie per offrire un’anima all’immagine e a quest’ultima dar possibilità di esternare risposte. Si compiaceva Martino mentre dialogava con la sua apparenza, fatta eccezione nei momenti in cui, il sole alto in cielo, irrompendo senza garbo dalla finestra spalancata, con quel fascio di luce abbagliante, rubava, sfocandola, se non addirittura annullandola, quella banale figura con la quale passava delle ore intere, pur di terminare il ragionamento, fatto d’idee stravaganti, bizzarre, che aveva intrapreso con lo specchio.
Il suo gatto Angiolino se ne restava anche lui quieto, senza miagolare, aspettando che il suo padrone finisse per poi occuparne il posto ed esporre i suoi lamentevoli miagolii, anche questi muti, senza sonoro, alla sua felina immagine. Era arrivato in quella casa a piacimento di una signora, vicina di casa. Questa :l’aveva sottratta alla nidiata e alle cure di sua madre gatta per regalarla a Martino. L’animale aveva “capito” in seguito il perché di tanta solerzia da parte della donna poiché era stato comprensivo il suo modo di procedere, non per rompersene della cucciolata ma per offrire una dama di compagnia ai singoli tali personaggi per non farli precipitare nella solitudine, nell’isolamento: anche se, con Martino, Angioino non aveva notato alcun risultato, anzi: era peggiorato. Non si spiegava Angiolino il perché la sua compagnia, dapprima ben apprezzata e poi, man mano, trascurata: fosse arrivata a quel punto. Martino aveva rivolto le sue attenzioni a quella cosa là nello specchio. Si era accontentato di una talmente piatta e monotona figura che nemmeno riusciva a regalar effusioni, come faceva lui. Anche da Martino ne aveva ricevuto sul suo pelo che era rimasto sempre morbido mentre ora era divenuto ispido, dopo la trascuratezza del suo padrone. Era stato, il suo, un ripiego, una conseguenza, al disinteresse di Martino nei suoi confronti. L’aveva fatto cadere in uno stato di sconforto e tolto pure la voglia di cercarsi una compagna della sua specie, una gatta, magari in calore. Un giorno aveva ascoltato i lamenti, i richiami della micia: provenivano dalla strada. Quella volta lui prese una decisione e scese quei tre piani di scale arrivando così in ritardo poiché qualcun altro, al suo posto, era entrato nelle grazie della felina. La sorpresa la trovò ritornando a casa: Martino gli aveva chiuso l’uscio in faccia e lui era rimasto sul ballatoio per ben due giorni, senza cibo e senza la lettiera. Da quel giorno Angiolino non aveva più osato allontanarsi ma era caduto in una siffatta situazione che aveva incominciato anche lui a imitare, fare pantomima al suo padrone, davanti allo specchio del comò.
Era passata pure a lui la voglia di cercar partito allo stesso modo di Martino che non si era mai adoprato in tal maniera. Dopo la morte dei suoi genitori di Martino, nessuno più aveva messo piede in quell’appartamento; erano rimasti solo loro due a mirarsi allo specchio in un soliloquio “riflessivo” con la propria immagine. Lo facevano a turno, però: prima uno e poi l’altro, fatta eccezione del tempo dedicato a cose meno importanti, come il mangiare e il dormire, poiché quello di completare l’eterno discorso, era rimasta la cosa più importante che restasse da fare.
Erano a due passi dalla conclusione: avevano convinto le immagini tanto che pure queste erano dello stesso avviso e ripetevano le stesse cose, lo stesso pensiero di loro due. Solo Angiolino era meno convinto della cosa tanto che fra lui e la sua immagine si era venuta a creare una certa diffidenza poiché quel modo di fare della sembianza, di ripetere alla lettera ogni miagolio muto di Angiolino, aveva messo in allerta il felino, sicuro che quel riverbero era lì a prenderlo in giro.
Era una cosa che si era legata agli artigli della zampa e aspettava il momento giusto per srotolarsela per poi cantargliela a quell’ipocrita immagine, senza sostanza e priva di cuore. Martino guardava l’altro ma non si riconosceva poiché la sua mente era ancora ferma alla prima immagine di una pellicola recuperata, dimenticata in qualche parte dell’occipite e ora ritrovata e messa in esecuzione. Di lui riconosceva la cicatrice sull’occhio sinistro, tanto credeva che, chi l’era di fronte, avesse avuto, a suo tempo, qualche disavventura con quei monelli dei suoi compagni: era quel film a confermarlo, quello che, per lungo tempo, aveva tenuto nella soffitta della sua mente.
In quel comò si era infilato lo spirito del “ragazzo Martino” e nel farlo, aveva deciso di portarsi appresso quello del felino, ma non era mite come il suo: era irrequieto, liberale come quello posseduto dalla sua specie. Una mattina, dopo aver fatto colazione con quattro sarde, rimaste del giorno prima, fu Angiolino a occupare posto sul tavolo di fronte al comò, notando quel figuro nello specchio leccarsi i baffi. In quel mentre ebbe come un rigurgito, un qualcosa che risaliva dallo stomaco. Non pensò alle sarde poiché lui non si ricordava d’averne mangiate: era la protesta a veder quella cosa schiacciata fare tutte quelle moine, le tante leziosaggini al solo scopo d’infastidirlo. Non stette più a pensarci, se l’aveva già legato alla zampa ed era ora di slegarselo quel nodo. Non ne poteva più; gli aveva rovinato tutte e sette le vite senza lasciargliene alcuna, almeno una … nulla … tutte e sette … per questo non ci vide più … gli si annebbiò la vista e non solo … pure quel rigurgito si era fatto fastidioso, insostenibile, eccessivo … era il vaso che stava traboccando, non certo di sarde … e con un balzo spiccò verso lo specchio, dove picchiò con il muso, mandando tutto in frantumi.
Martino era nell’altra stanza e avvertì il fracasso; si precipitò per trovarsi di fronte Angiolino insanguinato, steso sul pavimento, in mezzo ai frammenti dello specchio e una poltiglia di sarde rigurgitate. Se la prese tanto Martino, fu una vera tragedia. Gli ritornò la parola e alle sue orecchie era come un fruscio, mentre là di fronte, dal comò, più nessuno. L’avevano lasciato solo, in balia delle sue domande alle quali nessuno avrebbe dato più risposte. Quella che più gli premeva non riguardava né la sua vita né quella di Angiolino ma il passato di due anime: si erano dileguate, con un fragore assordante, in tanti frammenti quante le risposte disattese, omesse, necessarie per definire e poi curare la solitudine. Angiolino aveva afferrato la decisione giusta, quella di riprendersi l’anima, finita dentro la levigata superficie di quel comò: non voleva cederla dopo che gli avevano soppresso le sette vite. Martino respirava ancora, parlava pure, ma senza la sua anima con cui dialogare di quell’isolamento, anche se un fruscio che emanava dalla sua bocca dava l’idea dell’affollamento, della calca che non aiutava certo il sonoro del film ritrovato, per puro caso, nella soffitta del suo cervello.
14/giugno/2010
Novella tratta dalla raccolta “Novelle d’altri tempi”, mai pubblicate.