«L’amore non è amore se non ci si sente ardere e volare»
(Marc Chagall)
Era domenica, il giorno di mezzo: doveva fare e non voleva, come in ogni domenica che si rispetti.
Scelse di non occuparsi di nulla in particolare, nemmeno di sé.
Trascorse le prime due ore dopo la sveglia seduta al tavolo della cucina, alzandosi ogni tanto per riempire ancora la tazzina di caffè, mentre cercava di riordinare le cose da mettere in fila, cacciandole una alla volta non appena le pescava.
Sentì così iniziare, da lontano, la salita di quello stato che doveva tenere lontano, l’ansia e a quel punto spostò il fondoschiena sulla sedia del suo studio, puntando gli occhi contro il monitor 32’’; la mano destra sul mouse, l’indice iniziò la sua pressione sul tasto sinistro per interrompere lo stand-by, la mano sinistra già pronta sulla tastiera per digitare la password di accesso.
Ecco apparire la scrivania del suo computer, come la chiama il Mac, perfettamente rispondente a lei: da un lato un numero non meglio specificato di cartelle azzurre che contenevano certamente l’inverosimile e dall’altro lato tutta una serie di file di diversa natura o, dovrei dire, estensione. Sullo sfondo il mare: sconfinato, calmo, piatto, con il guardo che nessuna siepe, da tanta parte, esclude.
Si stava chiedendo dove diamine fosse finita l’icona di Keynote, il fratello IOS di Powerpoint e, soprattutto, doveva capire cosa farne.
Senza soluzione di continuità, decise che avrebbe trovato il modo di scacciare l’ansia concentrandosi su una presentazione che, l’indomani, l’avrebbe aiutata a portare in giro i suoi alunni: voleva farli camminare un po’ nel mondo di Chagall, quello semplice, diretto, colorato, innamorato.
Non aveva mai dimenticato il sorriso di quell’uomo, ancor più legato alla sua storia: ebreo, Moshe Segal all’anagrafe, un bambino allegro di Vitebsk, un piccolo villaggio della Russia. Il giorno della sua nascita il piccolo villaggio venne incendiato dai cosacchi, nel corso di uno dei frequenti progrom tesi a terrorizzare la popolazione ebraica che viveva nella Russia degli zar e lui fu salvato dalla Provvidenza, sotto a un tavolo: sono nato due volte, diceva, ricordando quel giorno di cui non poteva avere memoria, ma che doveva essergli stato più volte narrato e doveva avergli segnato la vita, il carattere, lo spirito.
La nostra amica stava riguardando tutta una serie di dipinti, fino a raggiungere quello le cui porte intendeva aprire alla sua classe: tovaglia rosso vermiglio, prato e abitazioni verde acceso, foglie blu cobalto, cielo bianco e grigio, sinagoga rosa pallido, abito rosa intenso, il volo: “La passeggiata” di Marc e di Bella, la sua Bella.
Già, Bella Rosenfeld che si libra in volo mentre il suo uomo le tiene la mano ed è evidente che quel gesto non sia un modo per trattenerla, quanto un modo per regalarle la solidità dell’umano, che sembra doverla seguire da lì a un attimo dopo.
L’esegesi figurativa che ne sarebbe derivata è rintracciabile con lo studio e la ricerca, ciò che difficilmente si può rendere esaustiva, è la descrizione del moto dell’anima che le si scatenò in petto, quando ripensò al giorno del compleanno di Marc e immaginò per l’ennesima volta Bella che riempiva la casa di fiori.
Questo il racconto della donna: “Non muoverti, resta dove sei”. Non riesco a stare ferma. Ti sei gettato sulla tela che vibra sotto la tua mano. Intingi i pennelli. Il rosso, il blu, il bianco, il nero schizzano. Mi trascini nei fiotti di colore. Di colpo mi stacchi da terra, mentre tu prendi lo slancio con un piede, come se ti sentissi troppo stretto in questa piccola stanza. Ti innalzi, ti stiri, voli fino al soffitto. La tua testa si rovescia all’indietro e fai girare la mia. Mi sfiori l’orecchio e mormori: “Fuori il cielo ci chiama”.
Questa, invece, la descrizione che Marc fa di lei: Bella scriveva come viveva, come amava, come accoglieva gli amici. Le sue parole, le sue frasi sono una patina di colore sulla tela… Le cose comuni, le persone, i paesaggi, le feste ebraiche, i fiori – questo era il suo mondo, questi erano i suoi soggetti.
Sì, certo che sì, la presentazione che la nostra amica voleva preparare fu portata a termine: il punto è che, a riguardarla, non aveva nulla di immobile.
Un lavoro rapido, completo, prorompente. Non era stata capace di estrarre ricordi inariditi, da un frammento di vita… quelle vicende avevano risolto il dilemma di Bella, che era stato esattamente l’opposto: trovava difficile estrarre frammenti di vita da ricordi inariditi.
Ne sentì la voce: “Tornerai domani? Prenderò un’altra tela e ci involeremo…”.
Una lacrima di profonda commozione le attraversò il petto: non riuscì ad asciugarla per ore, ore ed ore. Brillava dei colori che il sole regala ai diamanti quando li colpisce, tagliava come le assenze, accarezzava come le cure. Aveva in sé tutto l’irrinunciabile del pianeta uomo: solo non si poteva definire di cosa si trattasse con precisione e la nostra amica sapeva che nulla di tutto quell’improvviso tumulto avrebbe avuto vera fine, fino a che non avrebbe potuto riconoscerlo, chiamandolo in qualche modo.
Un nome: è necessario che tutte le cose abbiano un nome. Sempre.