
Il contributo di Isabelle Stengers
Può sembrare strano se non addirittura paradossale il fatto che di fronte alla pur faticosa e sempre più presa di coscienza della complessità dei fatti in cui siamo immersi da più parti emerga il bisogno teoretico-esistenziale di “riattivare il senso comune”, come recita il titolo di un recente lavoro di Isabelle Stengers, Réactiver le sens commun. Lecture de Whitehead en temps de débâcle (Paris, Editions Découverte, 2019), storica e filosofa della scienza che scrisse nel 1979 con lo scienziato Ilya Prigogine, Premio Nobel per la Chimica, il fondamentale testo La nuova alleanza, uno dei punti di riferimento dello stesso pensiero complesso; e tale lavoro viene ad inquadrarsi in una recente letteratura incentrata sulle diverse catastrofi (effondrements) in corso ma è programmaticamente orientato a meglio “navigare nel tempo dei collassi”, fenomeno che ha portato in questi ultimi tempi a “generazioni di collassonauti”, come le chiamano Citton Yves e Jacopo Rasmi in Générations collapsonautes. Naviguer par temps d’effondrements (Paris, Seuil, 2020). Tali autori sviluppano alcune idee della stessa Stengers, espresse in un testo del 2009 Nel tempo delle catastrofi. Resistere alla barbarie a venire (Torino, Rosenberg & Sellier, 2021), e si pongono sulla scia di studi condotti da figure eco-femministe che stanno mettendo in atto pratiche di decolonizzazione col denunciare i modelli scientifici e agricoli dominanti della razionalità economicistica occidentale; essi, basati sull’idea di inesauribilità delle risorse, sono il frutto di assolutizzazione ed in senso marxiano di ‘naturalizzazione’ di certe entità come l’uomo, la natura, l’ambiente, il mercato, che rendono “invisibili la loro complessità e la loro intrinseca interdipendenza” e che alla lunga conducono a débâcles e collassi di vario genere per l’intero pianeta. Si danno così delle indicazioni per mettere in atto ad ogni livello forme di alleanza tra le lotte anticoloniali e i collassonauti per “resistere alla colonizzazione parallela delle società umane e degli ambienti naturali” e per prevenire il più possibile ‘la barbarie a venire’ con la contestuale presa d’atto che ‘siamo tutti sulla stessa barca’ (La nostra barca, Odysseo 1 ottobre 2020).
Sono per lo più le giovani generazioni ad avvertire con una inedita sensibilità tale stato di cose per i débacles, già verificatisi e per quelli che stanno per abbattersi, in quanto li stanno ‘abitando’ in senso weiliano realmente sulla propria pelle, a partire dai disastri provocati dalle derive del sistema neo-liberista, da più parti denunciati, tali da portare alla presa di coscienza di esserne nello stesso tempo attori e vittime e alla necessità di porvi rimedio; tale fenomeno ha dato origine recentemente alla collassologia tale da portare alla necessità di scrivere un vero e proprio manuale per farvi fronte, come si evince da un paradigmatico testo del 2015 di Pablo Servigne e Raphaël Stevens, Comment tout peut s’effondrer. Petit manuel de collapsologie à l’usage des générations présentes e seguito da un altro volume del 2018, scritto con G. Chapelle, Un’altra fine del mondo è possibile. Vivere il collasso (e non solo sopravvivere), (Roma, Treccani, 2020).
Ma è sempre sul terreno delle idee che occorre lavorare prima per ‘disinfettare’ i nostri tradizionali strumenti, forgiati nella modernità dal pensiero ad una dimensione (La complessità come disinfettante, Odysseo 27 agosto 2020), per porvi poi dei ‘rimedi razionali’, come li chiamava Hélène Metzger, a tale stato di cose per non affogare nella “voga catastrofista” denunciata da Servigne e Stevens; in tal senso ci vengono in aiuto, come altre volte nel passato, le molteplici indicazioni avanzate da Isabelle Stengers, particolarmente engagée in questi ultimi decenni a ridisegnare i contorni di una nuova ragione filosofico-scientifica, a partire dall’opera del 1999 Science et pouvoirs. La démocratie face à la technoscience sino a Un’autre science est possible! del 2013, e contestualmente a proporre veri e propri itinerari tesi all’”ecologia delle pratiche” come in La sorcellerie capitaliste. Pratiques de désenvoûtement del 2005 e La Vierge et le neutrino del 2006.
Ed è da sottolineare ancora una volta che in area francofona, in questo ormai sempre più impellente processo di ‘riconversione eco-cognitiva’ a più livelli nel senso avanzato da Lorenzo Magnani, sono sempre delle figure femminili, prima negli anni ’30, Simone Weil e Hélène Metzger nel denunciare le derive scientiste ritenute dannose per le sorti della stessa umanità, e poi la Stengers a mettere sul tappeto la necessità di una nuova immagine della scienza una volta liberata dai nuovi e a volte non colti come tali ipse dixit in cui viene avvolta da interessi di vario genere; ma tale operazione è sempre frutto di un faticoso lavorio di tipo storico-riflessivo e di una continua sua interrogazione sui prodotti che confeziona. non avulsi dal contesto sociale, tale da dare un contributo non secondario a quello che Francesco Fistetti ha chiamato ‘campo di battaglia’ che è stato l’intero Novecento (Il Novecento: anche ‘campo di battaglia’ di idee, Odysseo 5 agosto 2021). Ma un altro elemento fondamentale che caratterizza questo recente lavoro di Isabelle Stengers è il confronto con le tesi ed i concetti messi in atto da Whitehead soprattutto in Processo e realtà del 1929 (ora disponibile in una nuova edizione del 2019 da parte della Bompiani anche col testo originale), del resto già avviato precedentemente in lavori come Penser avec Whitehead del 2002 e soprattutto Civiliser la modernité? Whitehead et les ruminations du sens commun del 2017. Tale figura del mondo inglese sta riacquistando una nuova centralità teoretica non di poco conto grazie alla ricca letteratura messa in atto dal pensiero complesso, ruolo sia pure in modo discreto individuato da Gaston Bachelard nel 1934 in Le nouvel esprit scientifique nel delineare le coordinate teoriche della ‘complessità essenziale della filosofia scientifica’ in senso non-cartesiano e non riducibile strutturalmente a posizioni di stampo normativo che hanno invece caratterizzato parte del dibattito epistemologico del Novecento.
Ma come tiene a sottolineare Isabelle Stengers, il suo è stato un approccio da ‘ruminante’ più che frutto di una fedele interpretazione esegetica della strategia teorica messo in atto dal pensatore inglese che da matematico si trasforma in filosofo, quasi in maniera analoga a Karl Jaspers che negli stessi anni da psicopatologo si fa promotore dell’onesta via kantiana, per denunciare gli esiti totalitari di false immagini della scienza e della tecnica col conferire loro ‘una caratteristica concreta mal posta’ che ha portato in vari settori dell’umano a varie forme di sorcelleries (incantesimi) poi incuneatesi nel tessuto sociale con nefaste conseguenze; attraverso Whitehead si riabilita e si riattiva il senso comune, ma soprattutto siamo invitati a ‘ruminarci’ dentro le sue articolazioni, a farne tesoro in quanto da una parte permette di superare la diffidenza degli specialisti nei suoi confronti e dall’altra di evitare che venga manipolato da interessi politici nello screditare la scienza stessa. Esso permette in primis di cogliere di fronte ai fatti, ad un evento, ad uno stesso concetto, ad un modo di mettere in atto una pratica scientifica un elemento di perplessità simile a quella di un Socrate quando passeggiava per le strade di Atene nel fare domande di ogni tipo col ricevere risposte non univoche ma portatrici di sensi particolari, frutto della stretta articolazione tra pensiero e vita, tali da portare ad “esitare insieme” e a costruire processi collettivi di natura conoscitiva per le comunità stesse.
Il lascito maggiore che viene riscontrato nel pensiero militante e “attivista” di Whitehead, da parte di Isabelle Stengers, è il suo rifiuto strategico della “biforcazione della natura”, da una parte cioè una natura ‘oggettiva’ sprovvista di senso e sottoposta a rigidi determinismi che non tengono conto dei loro effetti e dall’altra una natura ‘soggettiva’ da parte dello spirito umano che attribuisce agli enti naturali certi significati sfocianti a volte in vere e proprie ideologie; il senso comune se adeguatamente orientato è in grado di pronunciare un ‘sì’, ma anche un ‘ma’ e nel porre l’esigenza di capire la ‘causa’ di un fenomeno pone contestualmente quella del ‘come’ con l’aprire la strada all’”apertura di altri possibili” che un pensiero, forte delle sue ‘astrazioni’, a volte scarta e che invece l’esperienza della vita a volte invoca. Di fronte a tale artificiosa ‘biforcazione’ è indispensabile ridare al pensiero filosofico il compito di “saldare il senso comune all’immaginazione” che comporta da una parte una vigilanza nei confronti dei saperi astratti, che spesso trascurano le complesse esperienze della vita, e dall’altra la necessità di costruire un “noi” in grado di percepire i disastri, le rovine di un mondo in preda a dinamiche produttivistiche e a “modi di appropriazione distruttivi” che stanno portando al sacco di Gaia con la distruzione di molti ecosistemi.
Si ritiene necessario, pertanto, rimettere sul cantiere delle idee quel vero e proprio laboratorio che è il senso comune i cui portatori vivono direttamente sulla propria pelle i disastri di una ragione chiusa nei suoi recinti artificiosamente costruiti e monolitica che ha portato alla ‘colonizzazione’ della natura e della stessa umanità e a non capire il comune destino delle ‘totalità viventi’ su cui ha insistito Michel Serres; esso è portatore sia pure in modo embrionale di una maggiore presa di coscienza di un mondo più immerso nell’incertezza e nella fragilità tale da mettere in dubbio i punti fermi della modernità e da percepire come cogente l’interdipendenza planetaria dei fenomeni che devono far fronte al sistematico aumento delle nostre capacità tecnologiche e alla logica unilineare che le domina e che va riorientata su binari più adeguati. Si potrebbe dire che in esso è presente ed operante quella che è stata chiamata, in un testo scritto a quattro mani da Mauro Ceruti e Francesco Bellusci sulla scia di Edgar Morin, ‘l’intelligenza della complessità’ orientata sempre di più a divenire collettiva e che porta secondo Isabelle Stengers a percepire in modo strutturale lo stretto legame tra umani e non-umani: “da oggi si deve apprendere a vivere nelle rovine che significa apprendere senza la sicurezza delle nostre dimostrazioni e prendere atto di vivere in un mondo divenuto intrinsecamente problematico”.
Occorre, pertanto, per Isabelle Stengers lavorare insieme alla costruzione di “un avvenire” che prenda atto dei “luoghi rovinati” sia sociali che ecologici e che si deve basare, quasi con parole di Simone Weil, su “una idea di radice che resista sia a quella dell’emancipazione che a quella dello sradicamento” in quanto sono “le radici che ci fanno appartenere ad un luogo insieme ad altri, umani e non umani”. E ancora, “le rovine sono dei luoghi che pretendono di ritrovare il loro senso esigendolo da quei termini che abbiamo disonorato, realismo e pragmatismo” da rifondare ab imis come primario compito; in tal modo siamo tutti coinvolti in una navigazione inevitabilmente avventurosa in quanto d’ora in avanti e più di prima dobbiamo “apprendere a sperimentare con l’ignoto” sulla scia di Spinoza, figura che sempre ritorna quando si stanno vivendo situazioni inedite, che non a caso diceva che “non sappiamo di che cosa i nostri corpi siano capaci”, idea che per Isabelle Stengers va prolungata in “non sappiamo che cosa saremo in grado di pensare, di immaginare e di fare” in quanto non basta denunciare le ineguaglianze ed occorrono “dei dispositivi che ci rendono capaci di sentire e di pensare gli uni con gli altri”.