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È tempo di memoria, di ricordo, di celebrazioni particolari: il 27 gennaio per i milioni di morti nell’Olocausto nazista, il 10 febbraio per le vittime delle foibe, più in là il 21 marzo per quelle della mafia.

Sono date che chiedono un momento alla frenesia quotidiana, impongono una pausa di riflessione, un pensiero, una preghiera, una speranza. Una polemica anche, così pare.

A cosa serve, si è detto, celebrare queste giornate particolari se il razzismo continua ad esistere e ad ispirare parole, azioni, pensieri improntati alla più bassa esaltazione dell’io sulla diversità dell’altro, così invadente, così scomoda? Dovremmo ogni giorno coltivare la memoria di certi eventi, evitando di riempire le nostre bacheche social di messaggi inneggianti al rispetto, alla tolleranza, all’uguaglianza solo in determinate circostanze. Dovremmo soprattutto evitare di “scegliere” alcune tragedie a discapito di altre, che rischiano di cadere nel dimenticatoio per ignoranza e per la precisa scelta di rendere alcune vittime più “famose” di altre.

Tutto giusto. Chi può negare la necessità di conoscere il genocidio armeno, quello del Ruanda e del Congo, quello della Cambogia e dell’Afghanistan e tanti altri. Chi può negare l’urgenza di riflettere e prendere posizione sugli effetti di un becero razzismo ancora in circolo, capace di avallare addirittura la barbarie di centinaia di persone lasciate a morire in mare.

Che tristezza, però, arrivare a farlo con la polemica. Che tristezza cogliere, in giornate nelle quali solo il silenzio e la delicatezza di semplici parole possono tenere testa all’atrocità del male, un atteggiamento di superiorità e di indifferenza. Che tristezza infinita, soprattutto, constatare come la cultura del sospetto, dell’ultima parola, della coerenza assoluta, della saccenza dei “ma”, che tutto obiettano e nulla propongono, sia capace di annebbiare la compassione.

Ma dietro questo atteggiamento c’è altro, molto altro.

La cultura dell’immediatezza e della velocità ci insegna ad aborrire ogni mediazione: vige un senso pragmatico vuoto, predomina uno schiacciamento sul presente incurante dell’eredità, anche pesante, anche scomoda del passato e assolutamente incapace di progettare il futuro. Quella della necessità di uno “stile quotidiano” è spesso una scusa, celante la totale incapacità di fermarsi e di prendersi del tempo per celebrare. Celebrare la vita, la morte, il tempo, la storia, l’umanità con i suoi drammi e le sue conquiste. In altre parole non si ha più tempo per i riti.

È la stessa favola di chi dice di non frequentare la chiesa perché la fede va vissuta nella vita. Se solo conoscesse la portata di un rito, quello della messa, esistente solo per gioire di un incontro, di una relazione tra Dio e gli uomini, la quale porta inevitabilmente, pena la sua inautenticità, a celebrare e vivere ogni cosa con gioia oltre il perimetro della struttura ecclesiale.

Sfumature impercettibili per chi è imbrigliato in una qualsiasi trappola ideologica.

L’evidenza antropologica del rito nella quotidianità smentisce ogni tentativo di boicottare una determinata ricorrenza, di giudicare con superiorità chi si prodiga affinché certi giorni abbiano un sapore tutto particolare. Non per sminuire i restanti, semplicemente per dare loro una linfa nuova, uno stimolo e un significato ulteriori.

L’uomo si affida, deve affidarsi continuamente alla mediazione di simboli e segni per comunicare, per relazionarsi, per esistere; non se ne accorge, ma la sua vita è scandita da riti, attraverso i quali pone in essere e vive la sua appartenenza ad un determinato contesto sociale e alla razza umana tutta. Parole, messaggi, cenni, saluti, strette di mano, segnaletica stradale, il pasto in famiglia, con i posti assegnati e una paziente ripetizione di gesti da parte di chi prepara le pietanze, un compleanno, un onomastico, un anniversario di nozze o di morte: nella ripetitività di questo e di molto altro abita la freschezza della vita, ossia la capacità di trasformare ogni cosa in una novità. Perché il nuovo, il bello, lo straordinario scoppiettano nel solito braciere di casa.

Pretendere di mettere in discussione e cancellare la dimensione rituale, in virtù di un approccio alla vita diretto, quindi più autentico e puro, significa sminuire l’uomo. Cercare di combattere la monotonia grigia rifuggendo ogni forma di ripetitività, vuol dire perdersi in una ricerca infinita di novità senza carne, spersonalizzate, esteriori. Ergersi a maestri della verità sulla storia passata e presente, tacciando di “buonismo”, di “incoerenza”, di “parzialità” chiunque, avendo a cuore una certa ricorrenza, si prodighi per far passare messaggi di positività, porta solo alla chiusura.

Anche il Piccolo Principe, stanco della sua rosa, del suo piccolo pianeta, della solita routine, si mise in viaggio alla ricerca di cose sensazionali. Una volpe poi gli spiegò che cercare altro può non bastare e che i gesti attuati ogni giorno per prendersi cura della sua rosa avevano reso lei speciale e lui capace di scorgere l’essenziale. Quell’essenziale invisibile agli occhi, perché la sua bellezza e profondità impongono una mediazione; si lasciano toccare in quei riti semplici nei quali l’intellettualismo lascia il posto all’incontro, l’etica severa alla vera libertà, il monito cieco allo stupore contemplativo; si allontanano quando annusano la pretesa assurda di essere propinati come stile di vita che dalla vita non passa.

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Sono un'insegnante, anche se il più delle volte sono io quella in-segnata dai miei studenti. Sono una ricercatrice, perché cerco piste di rilevanza pubblica per una materia troppo fraintesa e troppo di nicchia: la teologia. Sono una giornalista e faccio cose con le parole. "Quello che non ho è quel che non mi manca" (F. De André) e sono immensamente grata alla vita perché, non senza impegno e sacrificio, "ho trovato amore nel mezzo de la via, in abito legger di peregrino" (Dante Alighieri, Vita nova)