«Urgono occhi capaci di accarezzare quello che vedono»
Non può essere un modo d’agire o il frutto delle azioni, se non diventa una modalità, l’unica modalità di guardare il mondo, le cose, gli altri, di contemplarli nella loro bellezza passando, esodando continuamente, dalla tentazione di distruggerne la peculiarità e la diversità allo stupore. Da qui, infatti, nasce l’accoglienza, dal decentramento di sé: decentrarsi significa non considerarsi parametro assoluto di giudizio, non contemplarsi come il centro del mondo, a cui tutto è dovuto e per cui ogni cosa è legittima.
Il rispetto presuppone tutto questo, è un fare spazio affinché l’altro sia e ci sia. Come l’amore, che vive solo per dire all’amato: «è bello che tu esista!».
Ma tutto parte dallo sguardo, dagli occhi, da queste finestre sul mondo, attraverso le quali interno ed esterno comunicano. E a seconda della purezza del cuore possono accogliere l’esterno per quello che è, oppure filtrarlo per adattarlo alle esigenze di un’interiorità incapace di mettersi in discussione, di decentrarsi appunto.
Rispetto, in effetti, deriva da re-spicere, guardare di nuovo: già, perché una simile contemplazione ha bisogno di esercizio quotidiano. Occorre guardare e riguardare, prendersi e perdere tempo per riflettere, cercare di capire, tornare sulle questioni, cogliere particolari persi nella fretta.
Non è un caso che, quando siamo in difetto, non riusciamo a guardare l’altro negli occhi: la mancanza di rispetto inquina lo sguardo, lo appesantisce, inibendo l’apertura. Diversamente una relazione pulita, nella quale anche la discussione e la divergenza di opinioni riescono ad essere atti di carità, si nutre di sguardi profondi. A volte tra chi si vuol bene non c’è nemmeno bisogno di parole, ci si capisce al volo, a sguardi. Altre volte, addirittura, chi ci ama veramente riesce a cogliere nei nostri occhi sfumature emozionali nascoste addirittura a noi stessi. Gli occhi sono lo specchio dell’anima, è proprio il caso di dirlo.
Una stupenda intuizione di Emmanuel Levinas, filosofo ebreo, è l’etica del volto: il volto dell’altro si impone a me per il semplice fatto di esistere; l’autorità dell’altro deriva dalla sua stessa presenza; il suo volto è il Sinai dal quale Dio continua a dire «Tu non ucciderai».
Continuando sul filone del limite, si può affermare che l’altro è un limite: effettivamente con un altro di fronte non si può fare tutto ciò che si vuole, forse non si può nemmeno correre a modo proprio, si è costretti a rallentare. Menomale: in tutto questo ad essere realmente, miracolosamente frenata è la presunta onnipotenza, la cieca corsa ad autocostruirsi e ad autorealizzarsi, nella quale si inseguono opportunità su opportunità, novità su novità, fino alla dispersione. Benedetto il limite che l’altro è, perché fa concentrare sull’essenziale e costringe a non vivere solo per se stessi. In una parole: salva.
Da qui il discorso sul rispetto si allarga all’educazione, alla fratellanza universale, alla responsabilità, alla solidarietà tra i popoli. C’è tanto bisogno di riflettere in tal senso in questo tempo di intolleranza ed insofferenza, nel quale il rispetto è associato per lo più all’autodifesa e parlare di volti e di sguardi potrebbe addirittura non bastare.
In effetti da un medesimo volto possono giungere messaggi diversi. Dal volto di un immigrato disperso e disperato in mare, per esempio, ad alcuni giunge un monito di umanità, di necessaria, inevitabile presa in carico del prossimo; altri, invece, si convincono del contrario, argomentando con l’importanza della sicurezza la propria indifferenza.
Ed ecco che il problema vero sta nel modo di guardare. Magari a volte ci si limita a vedere o ci si perde nell’osservare, nel fare analisi. E invece vedere implica semplicità e al contempo profondità, purezza e prontezza a sporcarsi le mani, dialogo e ascolto, possibilità di stare in gioco e capacità di non cercare sempre e solo visibilità.
Quando si guarda soltanto a se stessi, quando non ci si accorge delle esigenze degli altri, quando si è talmente concentrati su un’idea e su un obiettivo da non riuscire a capire che chi ci sta accanto potrebbe morire nell’indifferenza o essere fagocitato da un eccessivo zelo…allora di rispetto non si può parlare, perché manca totalmente.
«Urge rispetto», insomma. Ma in effetti detta così suona perentoria; sembra più che altro il titolo di un comizio di piazza, o il contenuto di uno striscione ideologico di quei cortei di protesta che, mentre rivendicano rispetto, sporcano le strade e insultano chi la pensa diversamente.
«Urgono occhi capaci di accarezzare quello che vedono»: ecco, così sa più di uomo, di cuore, di carne.