
Con Simone Weil e Maria Zambrano, un altro “cuore pensante” al femminile
In un periodo come quello attuale dove spesso i confini fra verità, opinioni e menzogne non sono ben delimitati, forse è il caso di guardare alle vicende di Hannah Arendt dopo la pubblicazione nel 1963 del suo famoso report Eichmann in Jerusalem. A Report on the Banality of Evil, come ci suggerisce Francesco Fistetti nel suo ultimo lavoro Hannah Arendt a Gerusalemme. Ripensare la questione ebraica (Genova, Il Melangolo 2019); questo agile volumetto, nel ripercorrere gli accesi dibattiti suscitati dal processo e gli echi successivi nel pensiero dell’Arendt, pone alcune questioni ancora oggi più che mai all’ordine del giorno, come dare il giusto rilievo veritativo ai fatti accaduti, che acquistano solo per il semplice fatto che sono accaduti una intrinseca oggettività da rispettare nella loro integralità e rugosità.
Questo è il filo rosso che Fistetti trova nel percorso dell’Arendt che rimase segnata dalle pesanti critiche ricevute per il suo reportage solo per aver posto l’accento sulle cause di quello che chiamava ‘il passato irrisolto’ del mondo ebraico e cioè il ruolo e la responsabilità avute durante lo sterminio dallo stesso Consiglio ebraico, fatto non ammesso dallo Stato di Israele di Ben Gurion nonostante la presenza di documenti orientati in tal senso, da una parte; e dall’altra per aver fortemente denunciato quel ‘collasso morale’ in cui era caduta la stessa ‘rispettabile’ Europa nel creare le condizioni per l’avvento dei regimi totalitari pur avendo alle spalle una lunga tradizione di pensiero critico. Tale aspetto tornerà centrale nell’incompiuta opera La vita della mente, opera che secondo Fistetti ha trovato le sue radici nel processo a Eichmann, definito un vero e proprio ‘laboratorio di riflessione’ che ha portato ad evidenziare il fatto che è venuto meno secondo l’Arendt quel ‘complesso uno e trino che per millenni ha tenuto stretto insieme religione, autorità e tradizione’; questo ha creato un vuoto teorico-esistenziale, ‘una sorta di limbo tra passato e futuro’, un’attenzione solo al presente e al nunc stans dove hanno trovato fertili radici le visioni totalitarie con i loro furori ideologici ed anche quegli atteggiamenti dei sistemi democratico-liberali che chiudono gli occhi di fronte alla verità dei fatti, a volte manipolandoli e rendendoli in tal modo opinioni.
Contro questo stato di cose si è mosso il pensiero dell’Arendt che ha sperimentato su di sé secondo Fistetti quella situazione socratica che chi dice la verità sui fatti viene eliminato o reso innocuo; non a caso si riporta una citazione, tratta dal suo Diario, di Kierkegaard dove si afferma che ‘la verità sul mondo viene uccisa’ come nel caso di Socrate e di Gesù Cristo. Ma ciò che ha di più impressionato se non scioccato l’Arendt è stato il fatto che anche nelle società cosiddette democratiche e socialdemocratiche la verità dei fatti viene messa in dubbio, non accettata per quella che è e anzi si mettono in atto strumenti per renderla solo un punto di vista fra i tanti, per sterilizzarla nei contenuti più imbarazzanti; in tal modo tali contenuti con le loro ‘verità inquietanti o indigeste’ pur oggettivi vengono trasformati in semplici opinioni che prima o dopo si corrompono sino a diventare interessi di gruppo. Tutto questo spiega il successivo impegno teoretico dell’Arendt rivolto a ripensare tutto il suo percorso, a mettere da parte la problematica del male radicale, presa in esame in Le origini del totalitarismo, per concentrarsi sullo ’statuto singolare della conoscenza morale’ nell’interpretare i fatti accaduti e come loro essere fedeli il più possibile e darne il giusto rilievo veritativo; così si fa strada un interrogativo teoretico ed etico-politico insieme non di poco conto nel cercare di metabolizzare critiche e polemiche suscitate da un semplice articolo di cronaca che aveva avuto solo il ruolo di aver dato la dovuta attenzione ad un reale storico, certamente non gradevole ma dotato di una sua specificità.
Nel ripercorrerne il pensiero sino all’altra fondamentale opera del 1978 La vita della mente, opera che segna una significativa svolta per Fistetti, ciò che risulta cruciale è quindi il tema della ‘cogenza della verità’ che costringe a prendere atto di come le cose sono andate effettivamente; l’Arendt arriva così a delineare il carattere ontologico della verità e soprattutto si sente in dovere di ‘non mentire sui fatti’ come aveva fatto la stessa Simone Weil (1909-1943), un’altra figura femminile impegnata fra le altre cose a capire le cause del totalitarismo nazista, le logiche del taylorismo e del nascente capitalismo finanziario insieme con le degenerazioni burocratiche della Rivoluzione d’Ottobre. Pur essendo i fatti fragili, essi diventano ‘resilienti’, ‘irreversibili’ come ogni azione umana e ‘resistono’ per l’Arendt alle logiche manipolative di tutti coloro che per vari interessi tendono a deformarli o addirittura ad annientarli; ogni tentativo teso a negarne l’esistenza si infrange per la loro ‘ostinatezza’ e la intrinseca ‘resilienza’ e anzi, sempre come diceva Simone Weil con altre parole, prima o poi essi fatti, con tutto il loro portato a volte drammatico come ad esempio la Shoah, ‘si vendicano’ nel senso che emergono in tutta la loro prorompente radicalità rimettendo tutto in discussione.
Se nei sistemi totalitari, come diceva il massmediologo canadese H. Marshall McLuhan negli anni ’50 nelle sue ricerche tese a valutare il grado di democraticità degli Stati Uniti, era più facile vedere rotolare le teste e scorrere il sangue, nei sistemi cosiddetti liberal-democratici questo non avviene più, ma si verifica un altro non meno inquietante fenomeno attraverso i mass-media e cioè lo ‘svuotamento delle teste’ rendendole sprovviste di adeguati strumenti critici; tutto ciò avviene, come dice a sua volta l’Arendt nell’analisi degli stessi sistemi liberali, manipolando i fatti dove le verità che danno fastidio vengono spogliate sistematicamente della loro consistenza e ‘trasformate in opinioni’ dove l’una vale l’altra senza la possibilità di vagliarle e argomentarle. Emerge così in tutta la sua cogenza teoretica e morale il tema del rapporto tra ‘verità e menzogna nelle società democratiche’, che è un problema cruciale per la loro stessa sopravvivenza e il destino stesso dell’homo sapiens.
Ma ciò che è anche non meno importante da sottolineare è che questi risultati sono stati raggiunti in particolar modo da figure femminili come l’Arendt e Simone Weil, definite insieme a Maria Zambrano dei ‘cuori pensanti’, espressione frutto dell’esperienza dei campi di concentramento avanzata da Etty Hillesum e che si può estendere anche ad un’altra figura femminile di origine ebraica Hélène Metzger (1889-1944), grazie ai suoi pioneristici studi sull’impatto delle nuove tecnologie sulla mente dell’uomo europeo tra ‘800 e ‘900 col renderlo passivo e più facilmente manipolabile, fatto ritenuto terreno di coltura delle idee totalitarie prima ancora della comparsa degli stessi regimi orientati in tal senso. Per ‘cuori pensanti’ è pertanto da intendersi il fatto che i risultati raggiunti da tali figure femminili sono il frutto non solo di una profonda e non comune riflessione di tipo teorico, ma anche di un’attiva e sofferta partecipazione in prima persona alle vicende analizzate nel tentativo di darne in primis un senso; ma tali figure, anche con il sacrificio della propria vita o perché uccise nei campi di concentramento o perché esiliate dai loro amati paesi, hanno anche proposto dei ‘rimedi razionali’, come li chiamerà la Metzger, per rendere noi più avvertiti nei confronti delle manipolazioni sempre in agguato.