
L’ansia del prodotto finale inteso come alte “performance” nei test, clima competitivo, ordine maniacale, voti alti, perfezionismo ha fatto già molti danni
Considerare come prodotto finale della scuola la relazione fra insegnante/maestro/docente/professore-essa e alunno/studente/discente è un’indicazione di metodo preziosa.
Sia detto per inciso, il collaboratore scolastico si chiama così perché collabora proprio con l’azione educativa dell’insegnante, cioè collabora a finalizzare positivamente la relazione educativa.
Dal canto suo il dirigente scolastico, che deve improntare la sua azione ai famosi tre criteri, “economicità, efficienza, efficacia”, può e deve misurarli proprio in relazione agli effetti della propria azione sulla relazione fra insegnante e studente. Se l’azione del dirigente contribuisce a creare un clima fertile e sereno, il risultato è senz’altro positivo.
In campo medico un antico adagio diceva che la prima medicina per il malato è proprio il medico; in campo scolastico la prima porta di accesso verso la crescita culturale in senso lato è (o può essere o dovrebbe essere) l’insegnante. L’esperienza insegna che, se è vero che è utopistico pensare che uno studente abbia un rapporto positivo con tutti i docenti, è altrettanto vero che basta che ci sia almeno un insegnante capace di affascinare, interessare, coinvolgere, perché l’esperienza scolastica abbia alla fine un bilancio positivo. Allo stesso modo, è utopistico pensare che un insegnante sia capace di coinvolgere tutti i suoi studenti, ma è altrettanto vero che se è capace di farlo almeno con qualcuno di loro, il bilancio sarà comunque positivo.
La cronaca non ci restituisce fedelmente la realtà delle tante esperienze che tengono letteralmente in piedi la scuola: fanno molto più rumore i casi di conflittualità e i fallimenti. È certo comunque che la relazione fra l’adulto/insegnante e lo studente ha subito cambiamenti enormi, né la soluzione può essere l’insegnante che rinuncia all’asimmetria della relazione e si mette sullo stesso piano dello studente. Soprattutto nelle scuole superiori, diventa sempre più forte l’esigenza di vedere il rapporto fra insegnante e studente come un rapporto di collaborazione per l’apprendimento, in cui insieme, nella diversità, si costruisce un sapere e un’esperienza in cui talvolta i ruoli potrebbero trovarsi capovolti. In questo sta il “noi”, cioè la costruzione di un’originale esperienza collettiva che è indispensabile perché la realtà in cui la relazione educativa è immersa è una realtà che ha subito e subisce trasformazioni molto rapide, che richiedono una continua ridefinizione ed un continuo adeguamento dei valori e della convivenza.
Salvare la relazione umana fra l’insegnante e lo studente e la relazione nel gruppo degli studenti è urgente: in assenza di questo ancoraggio, la scuola è una catena di montaggio del nozionismo con all’orizzonte la tecnologia e l’intelligenza artificiale. Se si ha paura di affrontare la problematicità inevitabile delle relazioni fra persone, la conseguenza, già ampiamente in atto, è la disumanizzazione, hikimomori (“stare in disparte”), la dispersione scolastica.
L’ansia del prodotto finale inteso come alte “performance” nei test, clima competitivo, ordine maniacale, voti alti, perfezionismo ha fatto già molti danni. È meglio che gli insegnanti riprendano in mano le redini dell’educazione. Non c’è dubbio che gli interessi politici ed economici hanno condizionato fin troppo la scuola pubblica e l’idea stessa di educazione, ma le scuole possono cambiare rotta se saranno capaci di dare pieno corso alla propria autonomia.
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