Un simbolo che si difende da solo

Avete presente la favola del Piccolo Principe, in cui questo particolarissimo personaggio scopre che “l’essenziale è invisibile agli occhi”? Ecco, pensavo a lui seguendo il paziente lavoro di Denis, un giovane di Carosino che ogni anno impiega diverse settimane per realizzare uno dei più bei presepi che abbia mai visto.

Nove metri di straordinaria manualità, un capolavoro di polistirene, legno, stucco, gesso, cemento, muschio raccolto personalmente. Cose ordinarie: prodotti da ferramenta e avanzi di terra. Ma l’artista è un poeta, che osserva la quotidianità e ne tira fuori le capacità espressive, difficili da cogliere quando si desidera sempre l’altro e l’oltre delle proprie giornate.

Denis fa esattamente questo, guarda e crea in silenzio. Ma non si creda che sia uno sprovveduto: se ne sta per mesi a studiare il suo progetto, per poi realizzare le decine di marchingegni che muovono le sue statuine ed inventare ambientazioni. La bellezza, si sa, non è mai questione di improvvisazione. L’eccedenza di emozione da essa generata lo testimonia chiaramente.

Ma tutto questo lavoro è speciale anche e soprattutto per la sua aderenza alla realtà, per il suo volere e sapere celebrare una storia. Nel presepe di Denis rivive la cultura in cui è cresciuto e che si porta dentro, indelebile; nelle scene realizzate rivivono in piccolo i riti che hanno scandito la sua, la nostra infanzia e quella dei nostri genitori e nonni e dei quali, forse, abbiamo tanta, tanta nostalgia.

E così attorno alla grotta del Bambino si ritrovano massaie impegnate a stirare e a cucinare e anziani seduti a giocare a carte, l’arrotino e il fruttivendolo, che in paese ancora passano per le strade con quell’inconfondibile voce cadenzata al microfono. Ci sono i vasai e i ceramisti, in onore dei grottagliesi che hanno trasformato la tradizione in una risorsa viva; il falegname e il pittore, i pastori e i bambini che giocano. E poi ci sono i contadini che vendemmiano, perché il vino a Carosino è tutto e settembre da noi è poesia, festa di famiglia.

Questa vendemmia in miniatura porta nel miracolo del Natale la fatica, la sussistenza, la speranza di intere generazioni e le ansie dei più giovani che, pressati nel torchio di un presente non troppo facile, lottano e attendono, piangono e sognano. Taranto ultimamente mette a dura prova la gioia e la vita stessa e a Natale le cose non cambiano: la fabbrica della morte sta lì, i morti non ritornano, il lavoro continua a decrescere, il veleno resta nella terra e nelle acque e si continua a fuggire. Eppure quella piccola vigna vicino a quel Bambino povero, perseguitato, migrante, operaio a Nazaret è una carezza. E a Natale non c’è bisogno di altro.

Il presepe di Denis protegge e celebra simboli antropologici altissimi e preziosi; del resto pre-saepire, il verbo cui la parola è connessa, significa proprio cingere, difendere e a me sembra, forse azzardando, che ciò significhi una cosa importante: il presepe è difeso dalla sua stessa capacità di difendere la fragilità umana e non come accidente da curare, ma come risorsa, l’unica in grado di salvarci nella misura in cui ci disarma.

Perché il presepe non è un segno da difendere a suon di parole, con la paura che i mutamenti repentini del presente stiano minando la nostra identità e le nostre tradizioni. Il presepe è un simbolo che si difende da solo col suo rendere speciali e forti cose minuscole e gracilissime, di celebrare l’ordinarietà, di ricordare che dappertutto, ogni giorno dell’anno, qualcuno ha bisogno di essere difeso con gesti concreti di cura, protetto con i riti che accarezzano, circondato e avvolto da mani sapienti.

Come quelle di Denis. Come quelle di chiunque in un angolino di cuore, di casa, di ufficio, di scuola, abbandonando la fissazione delle ideologie, si lasci difendere, accarezzare, circondare e avvolgere da un semplice presepe, realizzato con poco, con ciò che si ha attorno, con ciò che si spera nel profondo.

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