
Non c’era luna in cielo quella sera; era facile contarne le stelle tra gli spazi liberi da nuvole. Una brezza sferzante arrivava da Margherita di Savoia portandosi con sé odore di sale. Nella mente di Erminio era nitido il ricordo dei giorni afosi. Erano quelli dell’anno prima, con le ore passate sulla spiaggia insieme al nugolo di parenti. Li trasportava col carretto trainato dal suo ronzino, Erminio. Era piacevole rinfrescarsi nel mare mentre l’onda spumeggiava contro gli scogli impregnati di neri molluschi. Si parcheggiava col carro in mezzo ai natanti, tirati a secco sulla riva, dopo essere scivolati per una notte intera sopra i flussi. Usciva dal porticciolo per andare a pescare con la sciabica. Ritornava il mattino dopo con i telai pieni di vari pesci e molluschi, con cui si preparava la gustosa zuppa (u ciambötte).
Ora Erminio se ne tornava a casa, con l’ombrello chiuso che fungeva da legno d’appoggio. Camminava sul marciapiede sconnesso che sembrava zoppicante, ma era solo per scansare qualche buca piene di pioggia, caduta qualche ora prima. Il passo era scomposto e lento, di persona che non ha fretta d’arrivare: voleva dar tempo all’aria fresca di arieggiare i suoi indumenti. Si era fermato più del solito a chiacchierare con un gruppo di amici in un bar che si trovava sulla piazza del paese. I suoi vestiti erano impregnati da un forte odore di tabacco. Lui non fumava; non aveva mai avuto quel vizio, solo che, frequentando quella comitiva, dove tutti smaniavano per gli spinelli, al naso di Teresina, era come se pure Erminio, suo marito, fumasse. Lui tossiva spesso e lo faceva anche di notte, nel letto, mentre dormiva. Si era fatto visitare dal suo medico che gli aveva consigliato di respirare aria di mare, ma lui a Margherita di Savoia ci andava quando poteva e con lui, pure il cavallo faceva il bagno. Certo non poteva andare d’inverno in spiaggia: respirava aria buona pur restando a lavorare nel suo fondo di Montechicco. Aveva già i suoi reumatismi i quali ultimi gli avevano creato problemi alle articolazioni, per non parlare della gotta. Ogni volta che rientrava a casa, era la moglie a lamentarsi di quel tanfo che lui si portava appresso, ma non poteva farne a meno; era più agevole convincere lei che quella nutrita compagnia di fumatori. Quella sera era rimasto per lungo tempo nel bar e dopo esserne uscito, lui stesso si era annusato la manica della giacca provandone rigetto.
Se ne tornava a casa lentamente e non solo: aveva preso il percorso più lungo e il meno praticabile giacché voleva liberarsi un po’ di quella puzza, ma era incominciato a piovere. Aprì l’ombrello mentre passava di sotto un lampione spento e, per scansarne il palo, mise un piede sul bordo del marciapiede, perse l’equilibrio e cadde malamente sulla strada. Cascò di schiena e la testa, nel cadere, incontrò un mucchietto di spazzatura che ne attutì l’impatto. Era d’uso scopare sulla strada e mantenere pulita l’aria prospiciente. Si raccoglieva il tutto formando un mucchietto sotto il marciapiede: il mattino passava lo spazzino a raccoglierlo. Arrivava con un carrello, due spatole e il mastello e il tutto finivano per concimare i terreni poiché non comprendevano materiale nocivo. Alcune famiglie mettevano fuori dall’uscio un secchio con i pochi resti della mensa, ma erano i monelli a sparpagliarla in giro con le loro bravate. Se per la testa di Erminio fu un miracolo, non lo fu per la caviglia sinistra che gli diede una tale fitta da fargli rimanere, per qualche minuto, a bocca aperta, disteso per terra, per capezzale l’immondizia e sotto la pioggia. Non passava nessuno di lì che potesse dargli una mano a sollevarsi da quella scomoda posizione. Imprecò il fato, il trinciato forte degli spinelli, il puzzo di nicotina che lui si portava addosso, e i piselli in campagna. Sì, proprio quelli, poiché era a causa della loro raccolta che lui era uscito quella sera: a ingaggiare i ragazzi per la selezione del giorno dopo. Lentamente, con cautela e difficoltà si mise in posizione retta, dopo essersi afferrato al palo e tenendo il piede sinistro sollevato dal suolo. Il parapioggia aperto era finito sulla strada, a qualche metro di distanza dal palo della luce; era gonfio come una vela poiché il vento lo trascinava ancora lontano, sempre più lontano che lui non sarebbe riuscito a recuperarlo con quella caviglia che gli faceva un male bestiale. La distanza dal palo al muro era quasi inesistente e lui, con un piccolo saltello cercò di raggiungerlo per appoggiarsi e fu così che saltellando su un piede e sostenendosi alla parete, girò l’angolo e lentamente raggiunse il basso, dove abitava. L’acre odore che aveva prima si era mitigato e la moglie, al suo rientro, ancor prima di chiedersi il perché suo marito se ne restava lì, sopra una gamba, come un trampoliere nella palude, sopra una zampa, lo annusò come un cane fa con un intruso, poi gli chiese: -Che cosa hai fatto al piede? Perché sei così conciato, sporco e bagnato? Come mai rientri a quest’ora tardi? Dove hai lasciato l’ombrello? – non la finiva più di far domande Teresina. Con santa pazienza Erminio raggiunse, sempre saltellando, la prima sedia e si mise seduto; riprese fiato ispirandone aria a pieni polmoni, di quella che sapeva ancora di rape stufate e cercò di dare qualche risposta alla raffica di domande rivoltegli dalla moglie. -Quale risposta vuoi per primo giacché io non ricordo, quante domande mi hai rivolto? Il motivo che questa sera io non puzzo, è perché sono stato a mollo in una cunetta per qualche tempo … e indicò la sua caviglia che si era gonfiata. -L’ombrello mi è volato via e non ho potuto raggiungerlo per lo stesso motivo, e indicò ancora la caviglia. Riprese ancora fiato e proseguì: -La caviglia me la sono slogata scivolando sul marciapiede mentre tornavo a casa … e il ritardo è dovuto al fatto degli ingaggi operai per domani mattina. Ho fatto tardi perché gli ultimi due mi hanno dato risposta all’ultima ora, vuoi sapere ancora altro? Dammi piuttosto una pezza bagnata da mettere sull’ematoma, piuttosto che restartene lì impalata come un palo della luce spenta. Era molto adirato Erminio e la moglie se ne rese conto, ma non avvertì, col naso addestrato al tabacco, il puzzo della spazzatura sulla quale suo marito era malamente caduto. Di tutta la faccenda Teresina era rimasta scontenta solo dell’ombrello che lui aveva perso, volato via, poiché della caviglia del marito lei non aveva espresso alcun dispiacere anzi, così com’era conciato lui se ne sarebbe rimasto a casa, lontano dalla “cricca” e da quel bar puzzolente. Era una normale compagnia quella che componeva il gruppo di amici di Erminio: erano contadini come lui. S’incontravano prevalentemente per parlare di lavoro. Teresina non aveva pensato però che il giorno dopo, in campagna, ci doveva essere la raccolta dei piselli; nemmeno si era chiesto degli operai già ingaggiati; e al marito che doveva accudire all’animale nella stalla; bardarlo e infilarlo tra le stanghe del carretto; caricare gli attrezzi di lavoro e prelevare gli operai: no, a questo, Teresina non ci aveva pensato proprio. Andò in cucina e preparò un impacco di crusca e aceto che mise sulla caviglia del marito il quale, dal modo indelicato come lei gli aveva afferrato il piede: gli fece tanto male che le tirò qualche moccolo, assai colorito per la verità tanto che lei se la prese a male. Erminio aveva fissato appuntamento ai ragazzi, per il mattino presto. Erano tutti giovincelli quelli che lui aveva ingaggiato per la mattina dopo e che dovevano presentarsi dietro la porta della stalla, dove lui teneva il cavallo. Sarebbero partiti col carretto alle cinque del mattino poiché i ragazzi erano tutti appiedati. Disse loro di portarsi appresso un recipiente che al resto ci avrebbe pensato lui. Andò a letto con la caviglia gonfia ma già accusava meno dolore, forse per l’impacco che gli aveva preparato Teresina, oppure l’adrenalina che questa gli aveva caricato con le sue ingiuste lagnanze, fatto sta che lui riuscì a dormire qualche ora: beh insomma, fu una specie di dormiveglia la sua. Smise di piovigginare verso le due di notte e col sereno l’aria si fece più fresca; poi si levò un propizio venticello che non diede modo di formar rugiada sulla verdura e sulle piante. Erano le quattro in punto del mattino quando Teresina gli diede voce per farlo alzare ma senza chiedergli nulla della caviglia; nemmeno lui ci aveva più pensato e appoggiando con decisione i piedi giù dal letto accusò una tale fitta alla quale seguì qualche imprecazione. Lentamente si accostò alla sedia e senza profferire altro che qualche borbottio senza senso, si vesti con i panni da lavoro e, zoppicante, si diresse verso la stalla adiacente al basso. A questa si accedeva attraverso una leggera porta di legno lasco, tramite cui si poteva udire l’animale nitrire e scalpitare: pure i cattivi odori della stalla filtravano, attraverso le fessure, fino nel basso, ma i coniugi Gavino si erano già assuefatti a quel tipico olezzo. Erminio le aveva appese al muro le bardature del cavallo: frontale, braga e reggi braca, morso, martingala, portastanghe, borchie, collare e frontale, guide e redini, groppiera e sottocoda; erano tutti guarnimenti oleati con grasso suino e tenuti impeccabilmente lustrati: pure l’animale era trattato come uno di famiglia.
Il carretto era parcheggiato sulla strada, alle intemperie e alla mercé dei monelli che ci giocavano. Fece molta fatica Erminio per districarsi in quel vano, angusto e con poca luce, specie a quell’ora presto del mattino con una sola lampadina appesa alla volta. Ad annerire il bulbo ci aveva pensato lo sciame di mosche, dandogli una “mano” di scuro con i loro escrementi. Era arrivata Teresina, ancora in vestaglia, per aiutarlo: un colpo di coscienza, di comprensione oppure impazienza la sua? Si era decisa poiché si stava facendo tardi: aveva inteso vociare animatamente i ragazzi con i loro rumorosi secchi, cesti e panieri con i quali avevano dato inizio al loro gioco nel tirarseli dietro uno con l’altro infastidendo così Erminio. -Ragazzi, cerchiamo di stare calmi … qui c’è gente che sta dormendo e non solo: il cavallo si può spaventare e imbizzarrirsi. Come non l’avesse detto: il baccano continuò fino a quando salirono tutti sul carretto e, raggomitolati uno con l’altro, smisero di vociare. Al comando di Erminio l’animale si avviò. Il fondo, in contrada Montechicco, non era distante dal centro urbano. Non recarono più disturbo i ragazzi: si erano calmati. Si sentiva tutto indolenzito il contadino e si era messa pure la caviglia a completare la sua cartella clinica con la gotta che si era impadronita del suo corpo e gli recava talmente disturbo, in modo particolare quando stava cambiando il tempo. Si sarebbe assopito, sedato Erminio strada facendo con la stanchezza e il dolore che accusava. La strada era a memoria di cavallo: ci andava a occhi chiusi il ronzino. Conosceva il percorso e lo percorreva ad andatura dimessa. Era già da qualche tempo che recava il suo padrone a Montechicco.
Erano quasi arrivati e il cielo prometteva bene: senza nuvole e con il sole incoraggiante e senz’altro quel vocio dei ragazzi che si erano improvvisamente azzittiti. Lui si drizzò con la schiena e girò il capo all’indietro e vide che, quei monelli, dormivano saporitamente. Diede una tirata alle redini e fermò il suo bucefalo; era sì un cavallo da poco ma talmente ossequioso al suo padrone che non si lasciava mai ripetere due volte lo stesso comando. Con molta attenzione e mettendo il piede sul predellino, Erminio scese dal carretto e tirò il freno sulle ruote, poi diede voce ai ragazzi i quali, a malavoglia, sbadigliando si stirarono e, uno per volta, saltarono giù dal carro: «Loro sì, sono scattanti e leggeri», pensò il contadino.
Il campo era asciutto e le piante dei legumi di un verde intenso: i filari non si notavano talmente era divenuta folta la piantagione ma, bisognava farsi l’occhio per vedere meglio il prodotto che si confondeva, con il verde della pianta. I ragazzi avevano già il recipiente pronto per mettersi chini per la raccolta e prima di farlo Erminio diede loro voce: -Forza ragazzi, prima riempiamo i sacchi e prima si ritorna a casa; mi raccomando di raccogliere solo i baccelli pieni e robusti e non quelli ancora vuoti; fra qualche giorno saranno pronti anche gli altri e faremo un’altra passata … ora via, a ognuno un filare!
Si misero tutti di lena i giovani raccoglitori, solo Giacomo si allontanò di qualche passo per andare a orinare sotto un albero di mandorle. L’aveva fatto dopo aver girato le spalle al gruppo ma sempre nel campo dei legumi che uno di loro, Giuseppe, si drizzò gridandogli: -Giacomì, stai innaffiando la minestra per renderla più salata? Tutti scoppiarono in una risata. Appena il sole si levò più alto i ragazzi si tolsero gli indumenti pesanti del mattino lasciandoli appesi qua e là sui rami delle piante di frutta e di mandorle, sparse nel fondo. Le gazze svolazzavano e con il loro gracchiare riempivano l’aria di suoni. Si era arrivato a raccogliere quattro sacchi di baccelli che già qualcuno non lavorava più chino ma inginocchiato vicino la pianta; segno della stanchezza che aveva preso il sopravvento sulla scioltezza della prima ora di lavoro; c’era pure la sete, causa l’arsura che si faceva sentire e non c’era acqua da bere in giro: non ne avevano portata. Erminio aveva sete e il ronzino pure e poiché i ragazzi fino allora si erano comportati bene per aver raccolto abbastanza prodotto, gli venne l’idea di mandare uno di loro a un pozzo di un suo confinante per attingerne dell’acqua che avrebbe dissetato tutti: il secchio e la corda si trovavano sul carretto. Intanto, con lo stare in piedi impalato gli si era indolenzita di nuovo la caviglia tanto che cercò un grosso sasso che faceva da indicatore di confine, tra il suo fondo e quello adiacente, si sedette sopra e disse:-Ora voglio fare una cosa, chi di voi riempie prima il secchio di baccelli andrà al pozzo a riempire un secchio d’acqua. Apriti cielo! I secchi, in un baleno erano già a metà ma fu una promessa fuori posto quella che fece il contadino poiché il prodotto raccolto in quel frangente non era consono alla richiesta di Erminio: baccelli pieni e maturi. Quel sacco doveva essere scartato dal commerciante qualche ora dopo il rientro in paese, ma non solo. Il più svelto a riempire il recipiente fu Cosimo che andò al pozzo per riempire un secchio d’acqua. Ci andò dopo che Erminio gli disse di stare molto attento a non esporsi e di andare spedito senza perdere tempo: gli indicò la strada e lui, dopo aver preso secchio e corda dal carretto, con molta flemma, s’incamminò. Gli altri quattro ragazzi, sempre sotto l’occhio attento di Erminio, continuarono a raccogliere baccelli ma sempre con minor lena: dopo quella gara, su di loro era caduta una fiacca, una tale lentezza, da far apparire quella di un bradipo o di una testuggine agilità di gazzella, c’era pure la sete …
Appena Cosimo era giunto sul posto, notò un grosso albero di fico e, accanto: una fila di tufi messi in circolo. Si avvicino e si rese conto che quei sassi delimitavano il pozzo. Si affacciò e vide giù lo specchio d’acqua luccicare. Era la luce solare che, attraverso due rami di fico prominenti l’apertura, mandava qualche raggio sulla liquida superficie. Si srotolò la corda dal braccio sinistro, dove se l’era avvolta e mentre stava per far scendere il secchio nel pozzo, dopo essersi sporto con il busto in avanti per guardarci dentro: un qualcosa di volante gli sfiorò il viso facendolo indietreggiare di qualche passo. Lasciò la presa della corda che se ne andò dietro al secchio pendente, terminando, in un tonfo, la corsa sul fondo. Cosimo rimase spaventato, sbigottito, non si era reso conto dell’accaduto. L’improvvisa cosa volante che gli aveva sfiorato la faccia, con il rischio di farlo cadere giù, insieme al secchio e la corda, l’aveva lasciato di stucco. Ci volle qualche minuto prima che lui si riprendesse da quello sconcerto ma poi, lentamente e con circospezione si affacciò di nuovo e notò che l’acqua era ancora mossa: le sfaccettature là in fondo sembravano pezzi di vetro o luccicanti diamanti, ma nessun secchio e nemmeno la corda.
A quel punto gli passò un brivido per la schiena e incominciò a tremare; sentiva freddo sotto quel sole primaverile. Era tiepido poco prima e ancora piacevole sulla pelle. Il volatile era uscito difilato dal pozzo. Gli era volato quasi sulla faccia. Se gli fosse arrivato dalle spalle, per entrare nel pozzo, l’avrebbe spinto a testa in giù con il secchio e la corda … -Brrr! E provò una tal paura che rimase lì ancora, per qualche istante, immobile.
La tortora aveva fatto il nido in una fessura tra due tufi della camicia del pozzo. Il giaciglio si notava bene sulla parete interna, a circa due metri di profondità, dove fuoruscivano piccoli e teneri rami secchi, con alcune piume. Il ragazzo si era allontanato dalla cavità. Si era messo a rimuginare una qualche tattica per recuperare gli attrezzi finiti laggiù. Con tutta quell’acqua non poteva soddisfare la sua sete. Si sentiva la gola secca al pari di uno sperduto nella landa desolata. Non pensava agli altri, quelli che lui aveva lasciato a raccoglier piselli: assetati e stanchi. Erminio si era dissetato sorseggiando in una cunetta sul tratturo: pioggia rimasta dalla sera prima in una nicchia lasciata dalle ruote del carro. Erano molti a farlo, solo che non bisognava essere schizzinosi. Non pensando nulla che lo aiutasse nell’impresa, Cosimo pensò di recuperare il contenuto del nido. Sentiva quei pulcini pigolare e gli era venuta la voglia di sorprenderli, ma era assai improbabile recuperarli. Impresa ardua, difficoltosa poiché non vi erano appoggi o supporti per mezzo dei quali lui potesse raggiungere il nido.
Non si fermò nemmeno quando la tortora madre, arrivando dall’altro lato della sorgente, s’infilò nel pozzo per raggiungere i pulcini. Cosimo fremeva mentre mirava la scena. Avrebbe voluto anche lui spiccare un volo per raggiungere la dimora del volatile per catturarlo e mostrarglielo agli amici e al signor Erminio. Già, si era dimenticato che erano passati diversi minuti da quando li aveva lasciati intenti a raccogliere baccelli e, per di più, assetati come non mai con quel sole che ora picchiava forte. Cosimo si era dato coraggio e si era accovacciato ai limiti del pozzo, sotto l’albero di fico. Aveva spezzato un grosso ramo con il quale voleva colpire la tortora mentre questa faceva spola dal nido alla ricerca di cibo per i suoi pulcini. Intanto Erminio si era preoccupato ma non se la sentiva proprio di allontanarsi per andare a cercare il ragazzo che tardava ad arrivare: gli faceva molto male la caviglia che si era ancora rigonfiata. Decise di mandare un altro ragazzo ad accertarsi sul conto di Cosimo. Ci mandò Giuseppe, dopo avergli sollecitato a far presto poiché non solo era in ansia per Cosimo, ma che la sete stava creando seri problemi. Il cavallo era impastoiato lungo e brucava l’erba: avrebbe bevuto in paese. Giuseppe partì in quarta e in un baleno raggiunse la prossimità del pozzo ma non vedendo Cosimo, lo chiamò. Emerse di dietro la protezione di tufi Cosimo e ponendosi l’indice della mano destra sulle labbra sibilò: -Sssst, non fiatare, nasconditi che adesso ritorna, disse a bassa voce. L’altro non capi ma obbedì all’intimazione del suo coetaneo: pensò al peggio, a qualcosa di furtivo. Era curioso e lentamente, carponi, si avvicinò a Cosimo il quale gli sussurrò la sorpresa che lui voleva fare al volatile, per catturarlo. Giuseppe ne rimase elettrizzato dalla cosa e si accinse pure lui a procurarsi un lungo, verde e fronzuto ramo di fico. Si era dimenticato d’aver sete, pur avendo la bocca e le labbra asciutte. Dopo circa mezz’ora arrivò il terzo ragazzo, Giacomo: la stessa scena di prima, altro ramo di fico e tutti e tre posti in tre punti diversi. «La tortora non poteva scappare: era in trappola», si diceva. Il quarto ragazzo arrivò dopo venti minuti circa portando notizia che il padrone era assai incazzato. Disse grave che sarebbe venuto lui stesso a verificare il perché di quel ritardo con tutte le conseguenze che ne potevano scaturire. Dopo aver intimato la notizia, pure Pierino si armò di un ramo di fico e si schierò intorno al pozzo: si faceva sempre più dura la sorte del volatile, almeno così sembrava pur essendo entrata e uscita per ben quattro volte senza essere minimamente sfiorata dalle fronzute verghe. Erminio non stava più in sé dalla collera. I piselli nei sacchi, sotto il sole, erano già bollenti e tra non poco, si sarebbero cotti e anneriti. Il commerciante era stato chiaro con lui: li voleva teneri e freschi per poterli vendere al mercato. Fu a quel punto, con stizza, prese di petto Pasquale e, guardandogli negli occhi gli disse: -Tu sei l’ultimo, vai anche tu a vedere cosa stanno combinando quei ragazzacci e se non tornate subito indietro, tu con loro, … giuro che vi pago con nemmeno un centesimo. Glielo disse mostrando i denti, ma il ragazzo pensò che quella smorfia fosse a causa della caviglia che gli faceva male. Pasquale non fu per nulla intimorito da quella minaccia: era stato l’unico a raccoglier più piselli, anche se a mala voglia. Appena sul posto era passata anche a lui la sete ma no la stanchezza. Si diede un’occhiata in giro, seppe del nido nel pozzo e, come gli altri, si armò del ramo di fico accovacciandosi, più per riposarsi e non per la cattura del volatile. Sarebbe rimasto anche lui con gli altri quattro ma senza aver successo nel catturare la tortora la quale andava e tornava giù nel nido senza preoccuparsi di quei cinque che gli ventilavano addosso a ogni suo passaggio. L’albero, ormai, era spoglio, svestito come se fosse stato investito da un fulmine.
Era tardi a Montechicco, con i sacchi di piselli sotto il sole, ormai cotti in quei, non più verdi, baccelli. Erminio e il suo ronzino, uno fuor di pelle e l’altro scalpitante attesero che i monelli tornassero. Arrivarono a mani vuote i ragazzi. Avevano le facce che non dicevano nulla di buono. Erano coscienti d’averla fatta grossa quel giorno. Non ebbero nemmeno la paga per il lavoro svolto: sotto il sole a raccoglier baccelli. Non si resero conto della gravità della loro marachella. Non fu la stessa cosa per i loro genitori i quali dovettero mettere una pezza, risarcendo il contadino del secchio e della corda finita in fondo al pozzo. Arrivati in paese, i ragazzi, con i loro cesti, i panieri e gli indumenti che si erano levati al primo sole, saltarono giù dal carro: c’era la fontana che menava acqua, dove, avidamente, si dissetarono e s’inzupparono da capo a piedi, riprendendo il gioco del primo mattino. A Erminio non bastò poco tempo per vendere quei piselli poiché il commerciante aveva notato, dopo un accurato controllo, che quello non era un prodotto da mandare al mercato, ma fu una scusa per pagarli di meno e che Erminio a malincuore, accettò.
26/maggio/2010
Novella tratta dalla raccolta, non pubblicata, “Novelle d’altri tempi”.