Tutte le donne da bambine hanno sognato il principe azzurro sul cavallo bianco e il classico “happy end”. Anche quelle bambine inconsapevoli che la vita avrebbe riservato loro un destino ben diverso: diventare spose a otto, dieci, dodici anni, costrette a essere mogli e madri nell’età dell’innocenza, alla mercé di uomini estranei e violenti. Una evidente violazione dei diritti umani oltre che una pratica di violenza psicofisica che lascerà cicatrici profonde nelle loro vite di donne adulte.
Il fenomeno dei matrimoni precoci e forzati che, secondo le stime dell’Unicef, ha coinvolto più di 700 milioni di bambine, è una piaga dei paesi dell’Africa subsahariana e dei paesi arabi, piaga che ha un’unica ragione: la povertà e l’indigenza. Cedere in sposa una ragazzina a un uomo molto più grande attraverso un matrimonio combinato, garantisce la sussistenza alla famiglia di origine perché sarà il futuro sposo ad assumersi la responsabilità del mantenimento della figlia, una sorta di dote al contrario. Alla povertà si aggiungono anche la religione e le tradizioni che non possono essere violate, pena l’esclusione dalla comunità.
Allora non importa se quella bambina ha acconsentito solo perché le è stata promessa una bambola. Invece della bambola troverà violenza e abusi, gravidanze indesiderate e problematiche e soprattutto emarginazione. Sono in poche quelle che riescono a fuggire e magari a ottenere il divorzio.
“I Am Nojoom, Age 10 and Divorced” è il titolo del film che Khadija al-Salami, scrittrice e regista yemenita, ha presentato al Dubai International Film Festival e, a giugno, all’Istituto del Mondo Arabo a Parigi: racconta la storia vera della yemenita Nojoom Ali, la prima bambina al mondo che a soli 10 anni è riuscita ad a ottenere il divorzio. La storia di Nojoom è anche la storia di Khadija, anche lei costretta a sposarsi così come sua madre prima di lei. Data in sposa all’età di 12 anni a un uomo di 30 anni, dopo tre lunghe settimane era stata riportata alla famiglia dal marito – quasi fosse un elettrodomestico difettoso – per il suo comportamento inaccettabile: si era rifiutata di avere rapporti sessuali. Nel film Nojoom riesce a fuggire alle violenze e agli abusi inflittigli dal consorte e trova aiuto in un giudice a Sana’a, che decide di portare il suo caso davanti alla corte. Emblematica la domanda che nel film la regista fa pronunciare al marito della vittima durante il processo: “But tell me what crime I have committed” – chiede, assolutamente inconsapevole della gravità dei suoi comportamenti.
L’Italia non è estranea a questo fenomeno, conseguenza delle migrazioni: sono oltre duemila le ragazzine di origine straniera nate e cresciute nel nostro Paese e costrette al matrimonio forzato nelle loro terre d’origine perché l’ordinamento italiano vieta il matrimonio con i minori; 150 all’anno i casi emersi e accertati con la messa in tutela della minore. Si ricordi il caso di Hina Saleem, la ragazza pakistana uccisa da suo padre a Brescia perché aveva rifiutato di sposare l’uomo scelto per lei dalla famiglia fin da quando era piccola.
Per contrastare efficacemente questa pratica barbara, l’Italia si sta impegnando ad adottare tutte le azioni e le misure necessarie: ha già approvato nei giorni scorsi due mozioni, presentate lo scorso 16 luglio alla Camera dei Deputati, per dare attuazione alla risoluzione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite del 18 dicembre 2014 sui «Matrimoni di minori, precoci, forzati», e alla risoluzione «Rafforzare gli sforzi per prevenire e eliminare i matrimoni precoci e forzati», del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite del 2 luglio 2015. Perché oltre che un segno di civiltà è un obbligo morale per la società tutta proteggere e tutelare le bambine garantendo il loro diritto a crescere in modo sano e sicuro.