«O figliuol mio, non ti dispiaccia 
se Brunetto Latino un poco teco 
ritorna ’n dietro e lascia andar la traccia»

(Inferno XV, vv.31-33)

 Continua il cammino attraverso il terzo girone del settimo cerchio,  in cui Dante – pur sempre figlio del suo tempo e dei relativi pregiudizi – fa punire i sodomiti, ivi incluso il suo diletto precettore, Brunetto Latini.

Ci sono vari temi che meriterebbero un approfondimento in questo canto. Ad esempio: la nuova profezia che vuole mettere in guardia l’autore della Divina Commedia dalla triste sorte che i Fiorentini gli riserveranno o l’apostrofe contro gli stessi concittadini qualificati come gente cieca, avara, invidiosa e superba, ancora, il trattamento di poco riguardo a cui Dante ci ha abituato quando si tratta di mandare all’inferno i chierici con tanto di nome e cognome – è questa la volta del vescovo di Vicenza, Andrea de’ Mozzi. Personalmente, vorrei annotare anche la citazione di luoghi a me particolarmente cari, come gli argini edificati dagli abitanti di Padova per proteggersi dalle piene del Brenta (vv.7-9) o come il riferimento al fiume Bacchiglione (v.113).

Ho scelto però di soffermarmi sul dialogo di amore tra un vecchio maestro e il suo allievo, appunto, tra Brunetto e Dante.

Il primo lo appella per ben due volte «figliolo» (v. 31 e v.37) e gli chiede di potersi accompagnare con lui per un tratto di strada, staccandosi momentaneamente dalla propria schiera. Il secondo non solo riconosce subito il caro precettore, a dispetto del suo volto sfigurato dalle fiamme, ma lo ascolta a capo chino, in segno di rispetto, e lo chiama “ser” (“signore”), riservandogli parole dettate dal cuore. Dante precisa: se dipendesse dal suo desiderio, Brunetto sarebbe ancora in vita, ché «la cara e buona imagine paterna» (v.83) è ancora ben nitida nel cuore commosso dell’allievo, grato a chi gli ha insegnato «come l’uom s’etterna» (v.85).

Non è tutto. Brunetto è così fiero del proprio studente che non solo è certo che egli conseguirà il «glorioso porto» (v.56) che si merita, ma vorrebbe persino continuare a dare «a l’opera conforto» (v.60), ovvero continuare ad esercitare la sua azione a favore del discepolo, se solo gli fosse possibile.

Anche il congedo tra maestro e scolaro ha le tonalità dell’affetto più intimo. L’educatore raccomanda ancora l’opera della sua vita, il Trésor; raccomandazione irrealistica, si direbbe, Dante ovviamente ha già studiato su quel manuale di vita, ma …a Brunetto sta troppo a cuore che colui che ha allevato lo ricordi e cosa può raccomandargli di più, se non continuare a cercarlo tra le sue pagine?

L’ultima immagine è per una insolita descrizione delle abilità atletiche del Latini: egli si allontana rincorrendo la propria schiera come un corridore nel palio di Verona. Non come un corridore qualsiasi, si badi bene, ma come «quelli che vince, non colui che perde» (v.124): è così che Dante vuol ricordare il proprio precettore.

Mi ha commosso, tale affettuoso rincorrersi tra alunno e insegnante, specie in tempi di DAD, DDI e DOD – acronimo sarcastico e non mio, quest’ultimo, ideato per ribattezzare la “didattica on demand” voluta da talune Regioni.

Certo, naturale, sono parte in causa, ma non credo di rappresentare una causa meramente personale. Mi piace pensare che abbiamo davvero bisogno di scuola: e di maestri. Di gente brava non solo a parlare, ma a vivere e a insegnare a vivere. Di testimoni. Mi piace pensare a docenti innamorati della loro professione e dei loro allievi. E mi piace pensare ad allievi grati e riconoscenti. Come grati e riconoscenti vorrei immaginare i loro genitori.

Non aggiungo altro. Se non che un docente è chiamato ad essere prima di tutto un educatore, credibile attraverso e oltre ogni suo limite. Nonché attraverso e oltre il Covid.

Carlo Maria Martini: «Educare è come seminare: il frutto non è garantito e non è immediato, ma se non si semina è certo che non ci sarà raccolto». E Derek Bok, rettore dell’Università di Harvard: «Se pensate che l’istruzione sia costosa, provate l’ignoranza».

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La mia fortuna? Il dono di tanto amore che, senza meriti, ricevo e, in minima parte, provo a restituire. Conscio del limite, certo della mia ignoranza, non sono mai in pace. Vivo tormentato da desideri, sempre e comunque: di imparare, di vedere, di sentire; di viaggiare, di leggere, di esperire. Di gustare. Di stringere. Di abbracciare. Un po’ come Odysseo, più invecchio e più ho sete e fame insaziabili, che mi spingono a correre, consapevole che c’è troppo da scoprire e troppo poco tempo per farlo. Il Tutto mi asseta. Amo la terra di Nessuno: quella che pochi frequentano, quella esplorata dall’eroe di Omero, ma anche di Dante e di Saba. Essere il Direttore di "Odysseo"? Un onore che nemmeno in sogno avrei osato immaginare...