La gloria ha tanti genitori, la disfatta invece è orfana

Cinque svenimenti e due princìpi di infarto”. Questo il bollettino medico di una guerra…calcistica. Era il dicembre 1985 e Napoli e Juventus infiammavano il San Paolo con una partita al cardiopalma. Non era solo uno scontro al vertice del campionato italiano, era una battaglia politica, Nord contro Sud, polentoni tronfi di razzismo che insultavano i napoletani con quello striscione “LAVATEVI” visibile nelle immagini degli archivi Rai. Già, immagini. Scene al rallentatore, cinquecento ore di materiale inedito che la famiglia di Maradona ha messo a disposizione del regista Premio Oscar inglese, di origini indiane, Asif Kapadia, per il documentario “Diego Maradona”, prodotto da On The Corner Films, distribuito da Nexo Digital, e presentato, fuori concorso, al Festival di Cannes 2019.

Cinque svenimenti e due princìpi di infarto, dicevamo. Gli effetti collaterali di un calcio di punizione, di seconda, battuto nell’area di rigore bianconera. Il tocco di Eraldo Pecci a liberare la palombella finita all’incrocio di un impotente Stefano Tacconi. Era il gesto eroico di Diego Armando Maradona, il Masaniello tornato, a furor di popolo, all’ombra del Vesuvio, semplicemente un Dio. Acquistato dal Barcellona per salvare la squadra dalla retrocessione, Diego avrebbe conquistato in maglia azzurra due Scudetti ed una Coppa Uefa, ribaltando la gerarchia e relegando superpotenze blasonate nelle derive di una classifica sempre più espressione di uno smisurato e ramingo orgoglio meridionale.

Classe ed eleganza, genio e sregolatezza, Diego Armando Maradona è stato tutto e il contrario di tutto. L’umiltà di mamma e papà, maschietto fra tante femminucce a Villa Fiorito. Un vita di eccessi, la sua, raccontata dalla colonna sonora di Antonio Pinto, o, se volete, da O’ Surdato ‘Nnammurato, da Nino D’Angelo, dalla voce di 80mila tifosi accorsi allo stadio solo per accoglierlo, un boato che toccava il cielo ad ogni sua prodezza, fischi che lo accompagnarono nella semifinale del ’90 dopo l’eliminazione dell’Italia. Lui, già Campione del Mondo a Messico ’86, in un mix di disonestà e talento, la Mano de Dios, un cazzotto allo stomaco degli inglesi, corresponsabili della strage alle Isole Malvinas, ora ribattezzate Falkland. Furbizia che si fa sfregio, un pallone da brandire prima con l’arto superiore e poi con una gamba, sempre la sinistra, capace, qualche minuto più tardi, di dribblare tutto il Regno Unito e realizzare quello che viene considerato, all’unanimità, il gol del secolo.

L’amore di sua moglie Claudia, l’avventura con Cristiana Sinagra, un figlio, Diego Armando Junior, riconosciuto solo trent’anni più tardi, trent’anni di passione bruciante, una Città affascinante e distruttiva al tempo stesso, fiumi di cocaina racimolata dal clan Giuliano, famiglia camorristica che Maradona, seppur nolente, era solito frequentare. Controlli antidoping raggirati utilizzando l’urina dei suoi compagni, fino alle intercettazioni telefoniche nel 1991 e all’infermiera in campo al Mondiale USA ’94, dopo la rete alla Grecia, l’ultima con la casacca albiceleste della Seleciòn, allenata, successivamente, nel 2010.

Adesso Maradona è in un campo di calcetto, si muove a fatica, elefantiaco nel gesto tecnico ma non nell’idea di un grande campione, è il successo prodromico al fallimento di un uomo che, comunque vada, resterà immortale. Perché se la gloria ha tanti genitori, la disfatta invece è orfana.