LE LACRIME MANCATE

La morte, sorella morte, anche quando è tragica, è ciò che più ci accomuna. Cancella le distinzioni, i ranghi, le appartenenze, le provenienze. Le identità etniche. La morte non conosce le geografie o i confini territoriali. Si muore ovunque. E anche se ognuno muore la propria morte, ognuno muore la stessa morte. La morte è l’unico evento davvero globale, universale.

La morte chiede lacrime e non ragionamenti. Un silenzioso stare e non calcoli o rendicontazioni. Non chiede bilanci e spiegazioni ma solo gesti di profonda condivisione.

La morte è sia un evento singolo, personale, anzi personalissimo, ma anche comunitario. Un evento sociale che rompe i legami con chi ci ama, ma anche con gli altri che forse neanche ci conoscono. La morte ci ruba alla città anche se non è quella tua dove sei nato. Perchè si nasce a casa, ma si può morire ovunque. E la vera patria non è dove nasci, ma dove muori.

E se muori dove non sei nato, se muori altrove, non per questo sei figlio di nessuno o solo di pochi, ma sei figlio di quel luogo dove esali il tuo ultimo respiro. Per questo meriti le lacrime di chi, sulla propria terra, ti ha visto prendere congedo da questa vita.

Quand’ero bambino, sono rimasto sempre colpito dal fatto che quando moriva e passava il feretro di qualcuno, accanto e davanti, le persone si fermavano. Gli anziani si toglievano il cappello, i negozianti e i commercianti abbassavano le saracinesche, le auto si fermavano. Anche noi bambini smettevano di giocare, e, con il pallone in mano, davamo l’estremo saluto a colui che, da sconosciuto, in quell’attimo era come se fosse stato un nostro familiare.

Era un attimo di commozione in segno di partecipazione. Nella morte di qualcuno ciascuno aveva l’occasione per pensare e riflettere sulla propria morte, ma anche sulla brevità della vita. Nel salutarlo era come se una parte di ciascuno di noi –  della città intera –  se ne andasse via per sempre.

Era questo che voleva dire il vescovo padre Franco Moscone. E, invece, la sua esternazione, circa la poca partecipazione al funerale da parte della popolazione di Manfredonia, è stata da molti –  anche da parte di cosiddetti credenti –  giudicata “fuori luogo”, politicamente poco corretta.  Come se si fossero sentiti disturbati nella loro quieta coscienza.

E, invece, il senso di quelle parole nessuno le ha davvero capite. Forse, il vescovo voleva dire che il funerale dei Daniel e Stefan poteva essere un modo per dire alla famiglia che non erano soli. Che la loro tragedia è stata anche la nostra. E che per un attimo –  per un attimo solo – sarebbe stato bello stringerci tutti insieme per condividere i limiti di un’accoglienza che non funziona, di un cattivo modo di gestire l’inclusione e l’integrazione. Forse anche per chiedere scusa e perdono se non abbiamo fatto abbastanza per prevenire tale evento tragico.

Avremo potuto recuperare quella stupida distanza che si è venuta a creare tra noi e loro, e spargere il profumo simbolico della compassione e della pietà. Dire alla famiglia che quei due bambini non erano solo figli loro, ma anche figli nostri. Figli uguali ai nostri figli. E che il dolore non ha colori, non conosce schieramenti o frapposizioni, barriere o muri di sorta. Dire che con loro una parte di noi è morta per sempre.

Il funerale avrebbe potuto essere una grande occasione di riscatto dell’intera città, per fermarsi un attimo e deporre le vesti dell’indifferenza e dell’apatia. Un gesto simbolico in un’era in cui simboli sono stati azzerati.

Quando si muore, è la storia di ognuno che finisce. Ma se una collettività quella morte la fa sua, chi muore rinasce nella memoria e nell’affetto chi lo ha pianto. A Daniel e Stefan sono mancate le lacrime della città. E una città che non sa piangere la morte di due bambini, anche se non nostri, è una città morta dentro.

Per questo a nome di tutta la città, mi permetto di chiedere perdono alla famiglia dei due bambini, per le lacrime mancate. Per le lacrime non date. E spero che ciascuno, nei prossimi giorni, da solo o in famiglia, si fermi un poco e dedichi a Daniel e Stefan un momento di pietà. Per farli rinascere dalla facile dimenticanza. Ma anche per rinascere noi, come città, dalla loro morte e trovarci pronti a fare in modo che queste tragedie siano davvero evitate.


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Michele Illiceto (1960), insegna Storia della Filosofia Moderna e Contemporanea presso la Facoltà Teologica Pugliese di Bari (sezione ITRA di Molfetta). Scrittore, conferenziere e pubblicista, collabora con numerose riviste di filosofia e di teologia. Si occupa di formazione dei giovani e degli adulti, con particolare attenzione alle famiglie e al mondo del volontariato. I suoi interessi si muovono tra filosofia, teologia, spiritualità, etica e antropologia.