«Noi andavam con passi lenti e scarsi, 
e io attento a l’ombre, ch’i’ sentia 
pietosamente piangere e lagnarsi»

(Purgatorio XX, vv.16-18)

Continua nel canto XX il discorso sull’avarizia che già era stato iniziato da Adriano V e qui viene compiuto da Ugo Capeto il capostipite della dinastia capetingia: un papa e un re per ammonirci su quanto maledetta sia l’antica lupa (v.10) che più di ogni altra fiera trova prede per la propria fame eppur mai si sazia.

Le anime dei penitenti declamano a bassa voce esempi di povertà e di liberalità: solo di notte, spiegherà Capeto, sono ricordati esempi di avarizia punita, di cui farà lungo elenco. Il re prosegue ricordando le sue umili origini – Dante, confondendolo con Ugo il Grande, lo vuole figlio di un macellaio – e usa parole di fuoco contro i suoi discendenti, a tal punto in balia della cupidigia da rivoltarsi contro gli stessi congiunti, la propria carne (v.84).

Appare interminabile l’inventario dei misfatti degli eredi di Capeto e la reprimenda si fa più veemente quando, con una profezia post eventum, si sofferma su due note malefatte di Filippo il Bello: lo schiaffo d’Anagni e la soppressione dell’Ordine dei Templari. Se quest’ultimo atto sembra dettato da mera volontà di appropriarsi dei loro beni, l’umiliazione di Bonifacio VIII va ben oltre la sua persona, è mortificazione del vicario di Cristo, rievocazione del Golgota, che vede il re Filippo nelle vesti di Pilato e gli esecutori materiali, Sciarra Colonna e Guglielmo di Nogaret, nel ruolo dei due ladroni in mezzo ai quali Gesù fu crocifisso.

Il canto si chiude con un violento terremoto che lascia Dante sgomento e senza risposte, mentre Virgilio lo esorta a proseguire il cammino e si leva alto l’inno del Gloria in excelsis Deo (v.136).

In un racconto così ricco di eventi, di nomi di regnanti, di esempi biblici e della tradizione classica, la mia attenzione – contorta come sempre – è stata in realtà attratta da una terzina che non è di sicuro centrale né tra le più commentate.

Essa recita:

«Noi andavam con passi lenti e scarsi,
e io attento a l’ombre, ch’i’ sentia
pietosamente piangere e lagnarsi»

(Purgatorio XX, vv.16-18)

Noi avanzavamo con passi lenti e insicuri, mentre io ero attento alle voci delle anime che udivo piangere e lamentarsi in modo pietoso: mi ha colpito questo Dante, che amo non meno di quello delle similitudini ardite, delle allegorie complicate, dei memorabili j’accuse, delle descrizioni puntuali di quanto resta indescrivibile.

Amo il Dante dell’elegia, che si commuove per chi soffre, che è capace di empatia, che muove passi incerti e che – consapevole di rischiare il rimbrotto del sempre burbero Virgilio – non rinuncia a porsi in ascolto di chi leva il proprio lamento.

Mi piace Dante che dà credito ad anime anonime, che di certo non saranno state degli stinchi di santo, ma che pure sente fraterne in umanità.

Mi piace Dante come mi piace chiunque sia fratello all’uomo, chi si fa forte per i deboli, chi non sa stare in silenzio quando è il momento di schierarsi per una causa giusta: anche se perdente, anche se disdegnata dai più.

Inguaribile romantico: Dante naturalmente, non io, non tu. Tu ed io che c’entriamo? Noi siamo “gente ragionevole”, non è così?

Jean Rostand: «La mente più alta non ha forse la prerogativa per comprendere l’universo; ma l’ultimo dei cuori che soffrono ha il diritto di accusarlo».

Confucio: «È nel momento più freddo dell’anno che il pino e il cipresso, ultimi a perdere le foglie, rivelano la loro tenacia».

Alda Merini: «Gli emarginati hanno il fiato dolce».


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La mia fortuna? Il dono di tanto amore che, senza meriti, ricevo e, in minima parte, provo a restituire. Conscio del limite, certo della mia ignoranza, non sono mai in pace. Vivo tormentato da desideri, sempre e comunque: di imparare, di vedere, di sentire; di viaggiare, di leggere, di esperire. Di gustare. Di stringere. Di abbracciare. Un po’ come Odysseo, più invecchio e più ho sete e fame insaziabili, che mi spingono a correre, consapevole che c’è troppo da scoprire e troppo poco tempo per farlo. Il Tutto mi asseta. Amo la terra di Nessuno: quella che pochi frequentano, quella esplorata dall’eroe di Omero, ma anche di Dante e di Saba. Essere il Direttore di "Odysseo"? Un onore che nemmeno in sogno avrei osato immaginare...

2 COMMENTI

  1. Tutti noi procediamo lentamente e insicuri di chi è cosa troveremo davanti a noi nel percorso più o meno breve della nostra vita…
    Non siamo eroi del male, ne’ della santità: siamo mediocri forse, ma nell’accettare quotidiano di ciò che ci riserva la vita condividiamo la nostra esistenza con tante anime amiche nella nostra strada. Lasciamo ad altri le aureole o i troni, noi siamo sempre un po’ incerti e un po’ timorosi… forse dovremmo esporci di più e cavalcare crociate di idee e valori magari sbagliando…
    Il mio maestro di canto diceva:” meglio una stecca sicura che proferire voce cauta nel timore di sbagliare”…ecco, solitamente abbiamo paura, ma siamo in buona e numerosa compagnia.

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