Si possono fermare dei profughi, ma chi fermerebbe un corteo nuziale?
Un gruppo di siriani e palestinesi esuli in Italia decide di utilizzare questo stratagemma per raggiungere la Svezia, unico paese dell’Unione Europea – di 17, sulla carta – realmente aperto all’accoglienza di rifugiati politici.
Questa è l’idea dalla quale sono partiti Gabriele Del Grande, Antonio Augugliano e Khaled Soliman al Nassiry, i tre realizzatori del documentario “Io sto con la sposa”. Un documentario diverso, attivo, a partire dalla stessa produzione: è stato difatti finanziato “dal basso”, ovvero dalla gente comune che, contribuendo in maniera concreta, ha deciso di credere in questo progetto.
Decidere e credere sono due delle fondamenta di questo film. Nessuno decide di essere un rifugiato, ma per aiutarne qualcuno a continuare a credere nel suo piccolo sogno di stabilità si deve decidere da che parte stare. E per fidarsi l’uno dell’altro, bisogna credere nel prossimo.
“Io sto con la sposa” sceglie di mostrarci il lato buono dell’umanità, di regalarci immagini dense di significato e azione politica e sociale, seppur trasmesse con un tono leggero, quasi fiabesco. Ci invia un messaggio di pace, e lo fa attraverso il simbolico viaggio dell’abito bianco, così come avrebbe voluto fare Pippa Bacca, purtroppo infinitamente più sfortunata nella sua missione.
I registi sono stati abili nel rendere questo viaggio il più vivido e diretto possibile, mantenendo uno stile “casereccio” – la camera a mano non vuole mediare tra il pubblico e lo schermo – per far sentire lo spettatore parte di questa spedizione. Ciononostante non mancano i piccoli accorgimenti tecnici.
Le immagini non fisse, “sporche”, dinamiche, e la musica volta a marcare le identità dei protagonisti (molto spesso sono loro stessi a intonare melodie popolari) restituiscono una visione ancor più vicina alla realtà della vicenda. L’ultima patina la toglie la camera, che fa da occhio, da spia nascosta, a frugare nelle vite degli altri, a mostrarci una lacrima, una ciocca di capelli, un paio di scarpe. I personaggi sono inquadrati in dettagli, in primi e primissimi piani e con frequenza dal basso, quasi a voler farli apparire più maestosi nella piccolezza della loro vita ma nella grandezza della loro opera. Al tempo stesso, non occupano quasi mai il centro dell’inquadratura, si trovano sempre molto a destra o molto a sinistra; alle loro spalle, spesso, una parete spoglia. Forse non è del tutto casuale.
Sono tanti i messaggi che questo documentario vuole suggerirci, ma uno risuona più forte degli altri: è la speranza. Speranza che il sogno riesca, speranza di dare un’immagine più veritiera dello stato di rifugiato, speranza di un mondo più aperto e unito, senza sbarramenti di nessun genere per nessuno. Sollevando una questione: se il cielo è di tutti, perché non può esserlo anche la terra?

Marica Di Teo


[Foto copertina: www.iostoconlasposa.com ]