… gradite ‘o Campari o volite ‘o café? …

… volite ‘a spremuta o volite ‘o café? …

Quando nel 1993 mi son laureata all’Università “La Sapienza” di Roma con una tesi sulle canzoni di Fabrizio De André, lavoro a mezzo fra la letteratura e le comunicazioni di massa, ho commentato fra le altre l’allora recente Don Raffae’ e sono rimasta stupita per quanti significati contenesse quel brano. Erano anni in cui De André non era più il boccone prelibato per pochi eletti come lo era stato nel ventennio precedente; era conosciuto da tutti ma tutti continuavano a ridurre la sua ars e il suo ingenium al solito pacchetto di definizioni riducibili a “poeta maledetto”, cantore degli emarginati e dei ribelli, di simpatie anarchiche, libertarie, pacifiste. Ci si sentiva fighi se si conoscevano a memoria tutte le sue canzoni, ma nessuno lo trattava ancora da vero poeta, perché nessuno osava ancora analizzare i suoi capolavori come si fa per i grandi della letteratura; della sua vasta produzione letteraria rimanevano nascosti tanti preziosi elementi relativi sia ai significanti che ai significati, relativi cioè alla forma e al contenuto dei suoi bellissimi testi.

La mia tesi è rimasta inedita, ma di tanto in tanto faccio conoscere il commento di un brano a chi sa apprezzarlo. Ecco allora per i lettori di “Odysseo” alcuni concetti desunti appunto dal mio commento a Don Raffae’, pubblicato nel 1990 nell’album “Le nuvole”. Il brano, cantato da Fabrizio e Roberto Murolo, fu composto con la collaborazione di due nomi prestigiosi quali Massimo Bubola per il testo e Mauro Pagani per la musica.

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Com’è noto, il brano in questione è un dialogo immaginario fra una guardia carceraria e un detenuto da tutti molto rispettato. Il primo (un anonimo Pasquale Cafiero), cittadino deluso e amareggiato per l’inefficienza dello Stato, individuo dall’esistenza monotona e scialba, a contatto per forza di cose con persone che incarnano la violenza, il sopruso, la frode, trova conforto nella quotidiana confidenziale chiacchierata con una di queste (un non meglio specificato don Raffae’ che allude senz’ombra di dubbio a Raffaele Cutolo, fondatore e leader della Nuova Camorra Organizzata). Gli racconta di sé, della sua famiglia, delle mille difficoltà che deve affrontare lui cittadino qualunque, lui che non ha alle spalle uno Stato che lo tuteli e che gli garantisca una vita serena. Sullo sfondo di questa esistenza, come in un romanzo storico, la storia della nostra Italia di fine Novecento: corruzione, tangenti, inflazione, svalutazione della lira, inoccupazione giovanile, insuperabilità dei concorsi, spesso truccati, fatiscenza dei luoghi di detenzione, ecc.

Gli chiede consigli, gli chiede un posto di lavoro per suo fratello, gli chiede persino di prestargli i suoi abiti per una cerimonia importante e in cambio di tutto questo gli fa la barba, lo “bacia” e lo “implora”, lo adula. Entrambi i personaggi soddisfano un loro preciso bisogno emotivo/affettivo: don Raffae’ ha trovato qualcuno da proteggere, Pasquale Cafiero è riuscito a sentirsi protetto, è riuscito in qualche modo a surrogare l’auctoritas che gli manca, rovesciando così il consueto rapporto di dipendenza che si instaura fra un secondino e il suo prigioniero.

Qui il discorso si fa lungo perché il brano nella sua globalità è denso di significati, e meriterebbero un’analisi dettagliata anche gli oggetti citati e le singole espressioni, ma c’è un elemento che riassume e rappresenta ogni cosa, che costituisce la parola-chiave del testo in questione, rendendo superfluo ogni altro commento: il CAFFÈ.

Fra una confidenza e l’altra i due personaggi bevono il caffè. Conosciuta in tutto il mondo, questa è la bevanda nervina più diffusa in Italia e il suo modo di prepararla e offrirla è diverso dagli altri Paesi. La cosa più singolare è però la funzione che il caffè ha assunto nella vita degli italiani: è la bevanda della conversazione, del pettegolezzo; è la bevanda dell’intimità fra amici, della familiarità, della complicità. Niente riesce a risollevare l’animo di chi lo beve e a creare cameratismo più del caffè.

Pasquale Cafiero chiede a don Raffae’ se preferisce la “spremuta” o il caffè, la prima volta, se gradisce un “Campari” o un caffè la seconda volta. Il Campari e la spremuta diventano quasi le bevande “ufficiali”, oseremmo dire “statali”, preferite da chi sceglie di stare, nel bene o nel male, da parte dello Stato e con lo Stato; il caffè rappresenta, invece, la complicità, l’intrallazzo. Spesso abbiamo sentito dire «Cosa vuoi in cambio?» – «Niente, solo un caffè», quando qualcuno ha chiesto e ottenuto di essere favorito in qualcosa.

Non a caso la domanda è rivolta dal Cafiero a don Raffae’, che nella vita ha optato per il “caffè” (è un camorrista); e anche il primo – si capisce – comincia a preferire il caffè (si affida al camorrista). Questa immagine rappresenta il nostro comportamento quotidiano; ogni giorno ci troviamo a scegliere fa la “spremuta” e il “Campari” (rimanere onesti e fedeli allo Stato) e il caffè (affidarci ai disonesti e incrementare, così, la corruzione e il progressivo degrado dell’Italia). Il ritornello della canzone, poi, è tutto dedicato al caffè, rubando l’incipit ad una famosa canzone di Modugno: “Ah, che bell’ ‘o ccafé, sul’ a Napule ‘o sann’ fa’”.

Incisivo anche l’ultimo verso, denso di ironia: “Che crema d’Arabia ch’è chisto café!” significa “che capolavoro di situazione è quella in cui ci siamo cacciati!”

Va chiarita, poi un’altra cosa importante: il caffè non è, come si crede, la bevanda tipica napoletana; è piuttosto la bevanda italiana per eccellenza e la canzone Don Raffae’, che l’autore si ostina a cantare in pseudo-napoletano, è il grido di dolore non della sola Napoli, patria della Camorra, ma di tutta l’Italia, perché il problema della corruzione, della criminalità organizzata, della svalutazione della moneta, della disoccupazione, sono presenti in tutta l’Italia, non solo in alcune regioni o città.

Ah, a proposito: io detesto il caffè (in tutti i sensi); carbùro la mia esistenza terrena con il tè.

Buon ascolto!


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Sono nata a Barletta il 19 gennaio 1961 da padre barese e madre barlettana ma vivo ad Andria dal 1972. Docente di scuola elementare, materna e di sostegno, dal 1987 al 2001 ho insegnato nella scuola materna statale. Conseguita nel 1993 la laurea in Pedagogia all’Università “La Sapienza” di Roma, ho insegnato nel Liceo Scientifico “A. Moro” di Margherita di Savoia e dal 2002 insegno lettere nel Liceo Scientifico “R. Nuzzi” di Andria. Per molti anni ho studiato e commentato i testi delle canzoni di Fabrizio De Andrè, alcune delle quali confluite nella mia tesi di laurea (inedita) e ho tenuto in merito alcune lezioni. Ho pubblicato su “Odysseo” il commento del brano “Don Raffaè”. Ho trascritto una importante cronaca barlettana e sono tutta immersa nello studio della storia della mia città natale. In particolare mi sto occupando di opere letterarie che parlano di Barletta o che sono state scritte da autori barlettani non molto noti. Attualmente sono nel Consiglio Direttivo delle sezioni barlettane della “Società di Storia Patria per la Puglia” e di “Italia Nostra”.