Dopo aver mischiato accuratamente le carte, Antonio, seduto alla destra del mazziere, taglia in due i cosiddetti pozzetti che devono, secondo le ferree regole del burraco, essere disposti uno sopra l’altro. È la ripetitiva sequenza di eventi che accadono in uno dei tanti “centri ludici” della nostra citta’. Lo abbiamo chiamato Antonio, ma sarebbe potuto benissimo essere Giovanni, Luca, Riccardo, Andrea o Michele. Ciò che li distingue dal randagismo animale è quella trappola definita ragione che dà loro il diritto di lamentarsi nei confronti di ogni cosa, specie della mancanza di lavoro. Una parola, questa, utilizzata per dar voce ad un’incapacità celata dietro un maniacale videopoker che, pian piano, assorbe le ultime energie della dignità umana.

Già, le energie. Quegli spiragli di bagliore che accecavano le menti degli illuminati settecenteschi, di cui Giuseppe Parini fu uno dei massimi esponenti. Membro dell’Accademia dei Trasformati, il poeta e abate italiano fece del Neoclassicismo uno stile di vita, screditando prima di chiunque altro la figura dell’aristocratico, relegando il suo ruolo quasi sacrale ad una mera e inconcludente forma di nullafacenza.

Gli endecasillabi utilizzati per comporre Il Giorno mirano a rappresentare, in modo satirico, la nobiltà decaduta di quel tempo. L’ironia antifrastica di Parini segna, di fatto, l’inizio della letteratura civile italiana. Il “giovin signore” descritto nell’opera è impegnato ad occupare la sua giornata tra vizi e oziosità che si tramandano dal mattino alla sera, con un piccolo intervallo pomeridiano in cui il Vespro fa da sfondo al cicisbeismo del protagonista, intento ad accompagnare donne per mero gusto edonistico.

Attraverso questo anacronistico ritratto, Parini si fa portavoce di concetti rieducativi, teorie che spingano non solo gli ambienti altolocati ma anche la massa ad assolvere l’originario compito di utilità sociale, seguendo il programma riformatore di Maria Teresa d’Austria, che puntava ad un reinserimento, anche dell’allora vagabondo, nei ranghi occupazionali della società.

«Colui che da tutti servito a nullo serve»: è rimarcabile l’ambivalenza che riaffiora nell’ultimo capitolo del poema. Partendo da questo presupposto, Parini esalta apparentemente la noia, finendo poi per disprezzarla attraverso il valore semantico che dà proprio al verbo “servire”, inteso come “essere utile a qualcuno o a qualcosa”.

Il senso di monotonia oppressiva è accentuato dalla collocazione del racconto in luoghi sempre chiusi e ristretti come ristretta è, in fondo, la mentalità dei personaggi che ne fanno parte, una mentalità che considera giusto solo chi ambisce al guadagno facile, al mancato sudore, chi dimentica che, persino sul vocabolario, sacrificio viene prima di successo … e preferisce la dipendenza del gioco all’elevato rischio di vivere in maniera onesta e produttiva.