Quando anche gli ultimi testimoni saranno morti per il ricordo dell’orrore non resteranno che i poeti

Quando i pochi salvati dai campi rientrano nelle loro comunità, e ritrovano le famiglie, stralunati, inebetiti, non riescono a parlare, non hanno parole per dire l’orrore in cui sono precipitati. Hanno paura, paura di non essere creduti. Così per giorni, mesi, anni rimangono afoni.

Coloro che cominciano a parlare sono deportati politici che, a causa del loro impegno, sono stati scaraventati con gli ebrei nell’inferno dei campi. Tra i primi a rendere testimonianza, nel 1946, è David Rousset, che pubblica L’universo concentrazionario. Ho tra le mani un’esemplare di quella prima edizione, la fragile carta quasi mi si sfarina tra le mani: ha il sentore dolente di quel dopoguerra. Poi c’è Louis Martin-Chauffier che, nel 1947, pubblica L’uomo e la bestia: un suo amico, Claude Aveline, me ne ha così tanto parlato durante commosse conversazioni, che ho l’impressione d’averlo conosciuto. E c’è una donna, una donna straordinaria, Germaine Tillion, deportata nel 1943 a Ravensbrück, il campo di sterminio a nord di Berlino. Dopo aver patito la morte della vecchia madre, con coraggio e spirito indomito ha saputo trasformare la sua tragica vicenda in opportunità:  invece di lasciarsi sopraffare dall’abisso di orrore del campo, ha messo a frutto la sua competenza etnologica e, con minuziosa precisione, ha osservato e annotato i meccanismi del sistema carcerario, le angherie, le sopraffazioni dei carnefici, i comportamenti a volte contrastanti degli internati. Liberata nel 1946, ha riordinato e incessantemente rivisto  i suoi appunti e schizzi in un libro, Rawensbrück, degno di figurare accanto a quelli di Primo Levi.

Quando le prime testimonianze dei sopravvissuti cominciano ad essere conosciute, Theodor Adorno, il capofila della scuola di Francoforte, proclama che  «dopo Auschwitz è impossibile fare poesia». Pensiero intempestivo, che dopo qualche tempo ritratterà. E infatti, scrittori e poeti protestano, sostenendo che la letteratura e la poesia sono possibili, hanno ragion d’essere, non nonostante, ma proprio  a causa di Auschwitz. Alla vera arte, racconto o poema, incombe il dovere di dire la veritàe solo lei può davvero farlo.

È vero, «la Shoah è uno spazio sacro e solo quelli che vi sono passati possono sapere». Eppure, poeti e scrittori possono ritrovarsi davanti ai cancelli in ferro, davanti alle reti metalliche, davanti allo srotolarsi dei fili spinati, e immaginare. Tra i primi a farlo è Paul Celan (1920-1970), originario della Bucovina, che ha adottato il tedesco,  la lingua dei genitori, sterminati nei campi, per gridare l’orrore: ha costretto la lingua dei carnefici a dire l’abominio che non si può tacere, che non si dovrà mai tacere.

Nelly Sachs, nata a Berlino, e riparata a Stoccolma con i genitori, divenuta amica e corrispondente di Celan, a partire dal 1947 nei suoi versi ha indagato solo il  «mistero dei dolori d’Israele». Dopo di loro, in ogni parte del mondo, i poeti, sulle orme  di Giobbe, si sono andati moltiplicando.

Quando anche gli ultimi testimoni saranno morti e il ricordo dell’orrore avrà trovato riparo nelle poche righe dei libri di storia, non resteranno che i poeti, con i loro versi dolenti e allucinati, a scuotere le coscienze degli uomini, interrogarli, costringerli a ricordare. Ci saranno solo loro, i poeti, a proteggere l’indimenticabile contro l’oblio.

Ascolta “Nelle dimore della morte” nell’interpretazione di Maria Antonietta Vito

Nelle dimore della morte

Oh, notte dei bimbi piangenti!

Notte dei bimbi chiamati alla morte!

Il sonno non può entrare.

Orribili guardiane

Hanno sostituito le madri,

nei muscoli delle mani tendono la falsa morte,

la spargono sui muri e sulle travi,

tutto fermenta nei nidi dell’orrore.

Paura allatta i bimbi e non la madre.

 

Appena ieri la mamma chiamava il sonno

su loro, come una bianca luna,

in un braccio era la bambola –

con le guance lavate dai baci,

nell’altro una bestia di pezza

resa viva dall’amore –

Soffia ora il vento della morte,

solleva le camicie sui capelli

che nessuno più pettinerà

(Nelly Sachs, 1891-1970)

Ascolta “Le scarpette rosse” nell’interpretazione di Maria Antonietta Vito

Le scarpette rosse

C’è un paio di scarpette rosse

numero ventiquattro

quasi nuove:

sulla suola interna si vede

ancora la marca di fabbrica

“Schulze Monaco”.

C’è un paio di scarpette rosse

in cima a un mucchio

di scarpette infantili

a Buchenwald.

Più in là c’è un mucchio di riccioli biondi

di  ciocche nere e castane

a Buchenwald.

Servivano a far coperte per i soldati.

Non si sprecava nulla

e i bimbi li spogliavano e li radevano

prima di spingerli nelle camere a gas.

C’è un paio di scarpette rosse

di scarpette rosse per la domenica

a Buchenwald.

Erano di un bimbo di tre anni,

forse di tre anni e mezzo.

Chi sa di che colore erano gli occhi

bruciati nei forni,

ma il suo pianto

lo possiamo immaginare,

si sa come piangono i bambini.

Anche i suoi piedini

li possiamo immaginare.

Scarpa numero ventiquattro

per l’eternità

perché i piedini dei bambini morti

non crescono.

C’è un paio di scarpette rosse

a Buchenwald,

quasi nuove,

perché i piedini dei bambini morti

non consumano le suole…

(Joyce Lussu, 1912-1998)


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Domenico Canciani ha insegnato Lingua e civilizzazione francese nell’Università di Padova, occupandosi di Minoranze, storia intellettuale nella Francia del XX secolo e nel Maghreb, dei temi del dialogo interreligioso curando gli scritti di Louis Massignon (L’ospitalità di Abramo. All’origine di ebraismo, cristianesimo e islam, 2002; La suprema guerra santa dell’islam, 2003). Da anni si dedica allo studio della vita e del pensiero di Simone Weil, pubblicando articoli e monografie. Nel 2012 il volume Simone Weil. Le courage de penser, sintesi delle sue ricerche, ha ricevuto il Prix Biguet de l’Académie Française. Con Maria Antonietta Vito ha avviato una sistematica traduzione e cura di molti scritti della pensatrice francese.

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