Educare all’attenzione per difendersi dall’indifferenza

Non siamo più capaci d’attenzione e dunque di responsabilità. Qui sta la vera crisi dei nostri tempi e il progredire dell’indifferenza. Non siamo più capaci di educare i giovani all’attenzione e quindi alla responsabilità. Chi oggi avrebbe il coraggio di proporre alla riflessione un testo come quello che Simone Weil scrisse per il padre Perrin, cappellano degli studenti cristiani, nei difficili tempi di guerra? In esso, tra le altre cose, individuava negli esercizi scolastici una ginnastica per mantenere viva e rafforzare l’attenzione, quella capacità di percepire che gli altri esistono davvero, non sono nostre proiezioni. Non esitava a ricordare «che ogni volta che si presta veramente attenzione si distrugge un po’ di male in se stessi», e si diventa capaci di misurare il dolore di cui soffrono le persone che ci circondano, un dolore di cui non di rado siamo noi gli autori.

È banale ripetere che gli adolescenti, i giovani sono incapaci di attenzione verso il reale perché vivono immersi e estraniati in un mondo virtuale. Noi stessi adulti soffriamo di irrealtà. Il dolore, la sofferenza degli altri divengono reali solo quando mordono la nostra carne o quella dei nostri prossimi più prossimi. Altrimenti, tutto scorre, sugli schermi dei nostri televisori, dei nostri computer, o, più velocemente, sui nostri smart, che sono ormai la sola finestra sul reale.

Per questo spesso i giovani si percepiscono come gli eroi di un videogioco dove non vige la distinzione tra il bene e il male, ma un codice che distribuisce punti sulla base dell’assolvimento di un ruolo. La vita è un gioco di ruoli e il sangue è il colore rosso che macchia uno schermo, non sostanza che esce davvero da corpi straziati. La violenza prospera quando si è incapaci di leggere la complessità del reale, e tutto diviene piatto, come nel sogno.

Simone Weil ha intravisto nell’attenzione, esercitata e educata, anche attraverso gli esercizi scolastici, lo strumento per sottrarsi all’immaginario e per entrare in contatto con il reale. Occorre saper dirigere lo sguardo verso la morte e verso la sofferenza. Occorre imparare a riconoscere la realtà del male e della sofferenza. Solo sapendoli reali si riesce a non fare il male agli uomini, a non farli soffrire. Chi educa oggi i ragazzi, gli adolescenti a guardare in faccia il male, il dolore, ad assumere il peso dei loro errori e nei casi estremi dei loro crimini? Togliendo loro il diritto a un giusto castigo, quando compiono il male, li si mantiene nell’irrealtà, nel sogno. Pagare per ciò che si è fatto è un diritto d’ogni individuo. Oggi, spesso, gli adolescenti, i giovani, per un malinteso pietismo, vengono defraudati di questo diritto. Sottrarli troppo presto al peso dei loro sbagli e delle loro azioni delittuose concorre a mantenerli nell’irrealtà. Spesso gli adulti lasciano intendere che si possa uscire dallo spazio di un’azione malvagia come si esce da un film dell’orrore, con qualche fremito, per poi riprendere, inconsapevoli, i gesti consueti. Occorre sentire tutto il peso delle azioni che causano sofferenza, e occorre sentirle per un tempo giusto e congruo. Le azioni malvagie hanno fatto soffrire davvero gli altri uomini, per questo devono pesare, e fare male dentro per un tempo giusto e congruo. Ogni fuga dal peso del male compiuto, non di rado con l’ambigua complicità di sedicenti esperti, precipita di nuovo nell’irrealtà, nel sogno. Spesso psicologi e terapeuti, con i loro discorsi, rischiano di privare i giovani che hanno compiuto azioni delittuose della necessaria solitudine, del duro confronto con se stessi, dello spazio rude che può renderli consapevoli che il male è venuto dalla loro testa ed è opera delle loro mani.