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E Greta, a 8 anni, si chiede chi ha creato Dio…

La semplicità di un bambino. L’innocenza di un bambino. L’ingenuità e la curiosità di un bambino. Al bambino, in genere, sono associate queste cose. E molte altre. Ma è proprio così? Secondo me si tratta di un approccio un po’ riduttivo e abbastanza idealista, forse dettato dal bisogno di credere in una fetta di umanità ancora assolutamente pura, nonché dal desiderio di evadere l’adultità. Senza contare che, spesso, tendiamo ad ipercelebrare ciò che in fondo riteniamo abbastanza inconsistente rispetto alla nostra grandezza, con una sorta di senso di colpa.

In effetti “bambino” è il diminutivo di “bambo”, termine arcaico che significa “sciocco”, appartenente alla stessa famiglia onomatopeica di “babbeo”. La consonanza di B, P e M richiama i primi versi del neonato, nonché i suoi primissimi discorsi, incerti e faticosi, come il verbo greco che spiegherebbe una seconda origine del termine, “bambaino”, cioè “balbettare”. E se pensiamo che Mosè, uno dei più noti balbuzienti della storia, ha liberato un popolo, ci rendiamo conto che non è la proprietà di linguaggio a fare il genio. Questo è un pregiudizio cognitivista, che giudica tutto col metro delle abilità classicamente definite razionali; per cui il bambino, tanto bello, tanto buono, tanto caro, resta sempre sottoposto all’adulto, che legge, scrive e parla e, quindi, non ha più nulla da imparare. Ha già fatto tutto. Gli resta il gravame di dare esempi e insegnamenti all’infante di turno. A proposito: “infante” è, letteralmente, colui che non parla.

Eppure i bambini parlano, eccome! Greta a 8 anni si chiede chi ha creato Dio, se Dio ha creato tutto, mentre il suo compagno Andrea è convinto che scienza e Bibbia non siano assolutamente nemiche, perché «veniamo dalla scimmia, ma comunque Dio ci sostiene». Noemi (stessa età) ha la sensazione che i grandi «scoraggino la speranza». Gabriele a 9 anni si chiede se Hitler è all’inferno. Gioele a 6 anni è «preoccupato per l’aumento dei casi di Covid», mentre la coetanea Francesca vorrebbe essere un maschio, perché «i maschi comandano e le femmine no!». E potrei continuare…

Questa non mi sembra proprio semplicità. Semplice è il modo spontaneo con cui il bambino parla, ma quello che dice è sempre molto, molto complesso, anche quando dice poco, oppure non raggiunge questi picchi di maturità. Una complessità già evidente nell’egocentrismo tipico dell’infanzia; una complessità che può diventare tutt’altro che innocenza e purezza, quando il bambino a 9 anni è violento, fisicamente e verbalmente, e può essere terribilmente volgare, oppure infligge volontariamente sofferenza ai più deboli per colmare i propri vuoti. O meglio, quei vuoti che i raziocinanti adulti gli hanno scavato dentro.

Ecco: nei bambini, se c’è un’innocenza, se c’è una semplicità, se c’è una purezza, queste non riguardano la qualità di pensieri, parole, opere ed omissioni. L’innocenza, la semplicità e la purezza del bambino stanno nel suo dipendere, nel suo essere nelle mani di altri con fiducia incommensurabile, anche quando delusi, in una società individualistica che scambia solitudine e isolamento, che oppone la verità alla fantasia, la realtà all’immaginazione e la novità alla tradizione, che insegna che sei forte solo se non hai bisogno di nessuno, non chiedi e non piangi. «I bambini piangono»: si dice così, no?

Il fanciullino che in noi va tenuto desto, allora, non è l’ultimo scampolo di un’infanzia da rimpiangere, soprattutto se intesa come tempo privo di responsabilità e malizia, no! È il bisogno di aiuto e sostegno. È la libertà di piangere e di chiedere una favola. È l’attaccamento a semplici riti quotidiani. È la lentezza di un giorno intero solo per fare un disegno, un disegno inutile, indegno del teorema di Pitagora, eppure capace di diventare il punto d’appoggio su cui risollevarsi dopo una giornata difficile, piena di cose inconsistenti e doppie, da grandi! È l’umiltà di fidarsi, è la gioia per una palla che rotola, è l’abbraccio continuamente cercato, anche quando uno stramaledetto virus circola indisturbato.

Essere come i bambini, insomma, è difficile: la purezza, da sola, non basta, soprattutto se letta con gli occhiali del moralismo. Serve la fede, quella non della bocca che parla ma delle labbra che sorridono, quella non delle mani giunte ma aperte sul mondo, quella non del ragionamento ma dell’emozione, che è la ragione di chi ancora sa vivere senza programmare tutto.