Fino ad ora non è possibile estradare in Cina e in altri paesi sotto l’influenza della Cina come Taiwan chi commette un reato
Più di undici settimane di proteste, oltre un milione e mezzo di persone, traffico e trasporti paralizzati. È questa la situazione ad Hong Kong, territorio cinese ma dalla cultura più variegata essendo stata colonia britannica per 100 anni. Molti ricorderanno la data fatidica, quel primo luglio 1997, quando la penisola di Hong Kong fu ceduta dal Regno Unito alla Cina, secondo gli accordi presi e adottando quella che viene comunemente chiamata la soluzione ‘un paese, due sistemi’.
Questo sistema salvaguarda l’autonomia del paese, il sistema economico capitalista, le leggi basate sul common law britannico e la libertà dei cittadini, almeno fino al 2047, anno in cui scadrà l’accordo. Dal 1997 si sono susseguite le richieste di svincolarsi e di diventare una democrazia completa, rendendo la storia recente di Hong Kong costellata di proteste e istanze da parte dei promotori e difensori dei diritti umani. Le pressioni del governo centrale cinese però si sono fatte sentire sempre più e già nel 2014 il paese aveva assistito a delle proteste di massa: i cosiddetti ombrelli gialli, proteste pacifiche che coinvolsero per lo più studenti universitari, attivisti e associazioni e che prendevano ispirazione dal movimento a più ampio respiro internazionale di Occupy. Cinque anni fa le proteste furono innescate dalla volontà di ottenere il suffragio universale sul territorio. Le proteste si conclusero dopo 79 giorni e l’arresto dei promotori delle proteste. Questi sono stati recentemente condannati e rischiano anche sette anni carcere, grazie ad un’applicazione della common law anacronistica.
Ed è proprio sette il numero che torna nella legge sull’estradizione, la fiamma che ha incendiato gli animi dei dimostranti questa volta. Fino ad ora non è possibile estradare in Cina e in altri paesi sotto l’influenza della Cina come Taiwan chi commette un reato, mentre se la legge sull’estradizione verrà approvata, sarà possibile richiedere la consegna dell’indagato. Ciò può sembrare prassi normale ma in questo caso gli attivisti dei diritti umani sospettano che la Cina potrebbe utilizzare questa legge per estradare anche attivisti e critici del governo centrale, in quanto ogni caso potrà essere giudicato a se stante e le prove potrebbero essere modificate. Inoltre, grazie a questa legge, il governo centrale potrebbe richiedere l’estradizione per alcuni oppositori politici rifugiatisi a Hong Kong con conseguente violazione dei diritti umani.
La protesta si è ampliata fin da subito sia nei numeri, sia nelle azioni che nelle richieste. Nei numeri in quanto agli studenti e ai giovani attivisti si sono aggiunte persone di tutte le età e ceti sociali, lavoratori di ogni tipo compreso funzionari pubblici, uomini e donne più anziane e senza più paura di lottare. Nelle azioni in quanto si è passati anche ad atti più violenti con conseguente risposta della polizia – che ha usato gas lacrimogeni e azioni di forza indiscriminate. Alcuni sospettano l’intervento di gruppi violenti legati alla triade, altri pensano che questi violenti stiano solo facendo il gioco del parlamento e dunque gli interessi della Cina. L’intento era sicuro: spaventare i dimostranti in modo da terminare le proteste. Nonostante questa subdola tattica, gli attivisti non si sono arresi e anzi, hanno anche esteso le loro richieste: non si tratta più di mera opposizione alla legge sull’estradizione – dichiarata morta il 9 luglio da Carrie Lam, governatrice della penisola – ma di una richiesta di libertà e di rispetto dei diritti civili, contro un influenza cinese sempre più possente.
Gli abitanti di Hong Kong infatti, per quanto siano in maggioranza di etnia cinese, non si sono mai sentiti completamente tali. L’incontro con l’occidente ha sviluppato un sistema di valori e di principi diversi. Un esempio pratico è il sistema scolastico in stampo anglosassone, un sistema economico basato sul capitalismo, la possibilità di commemorare gli avvenimenti di piazza Tienanmen e il libero accesso alle reti internet senza interventi di censura.
Forse noi occidentali diamo per scontato queste piccole cose, queste possibilità che ci vengono date dallo stato di diritto. Ma per chi ha vissuto sempre a cavallo dei due mondi e conosce entrambe le facce della medaglia, salvaguardare i diritti ottenuti è fondamentale, anzi, diventa di primaria importanza. La libertà di poter dissentire, di esprimere la propria opinione, di poter scegliere i propri rappresentati autonomamente e attraverso il voto di tutti. Una lotta che non dev’essere distante da noi, dal nostro mondo, ma che dev’essere integrata nei nostri pensieri perché la libertà di espressione e di pensiero è un diritto globale e va protetto in ogni angolo del globo. Non è possibile accettare interventi di forza e atti di sottomissione: chiunque abbia cuore la libertà è al fianco di un milione e mezzo di persone scesa tra le strade di Hong Kong.
Non che la Cina sembri un posto paradisiaco, ma il nostro egocentrismo geopolitico ci mostra il lontano, l’esotico, il diverso come il cattivone, il censuratore, il male.
Già il fatto di leggere nell’articolo che ad Hong Kong vige il sistema economico capitalista la dice lunga sulle Al Nakba di cui l’impero anglossasone si è reso responsabile col suo colonialismo. Quindi val bene criticare il sistema “oscuro” della Cina ma svincoliamoci da questo egocentrismo geopolitico e impariamo a fare molta più autocritica del nostro “libero” sistema occidentale asservito al potente e seducente dio denaro.