
Scontri tra studenti e polizia per le strade di Hong Kong, manifestanti che provocano disordini, folle disperse con spray, lacrimogeni e proiettili di gomma. È questo ciò a cui stiamo assistendo da qualche settimana a questa parte su giornali e notiziari. La domanda sorge presto spontanea: ma che sta succedendo ad Hong Kong?
Per rispondere a questa domanda occorre fare un piccolo passo indietro nella storia. Hong Kong è stata colonia britannica fino al 1997, quando è ritornata sotto la sovranità cinese. “È ritornata” significa che questa stretta striscia di terraferma con annessi isolotti è stata parte integrante dell’Impero cinese fino alla fine dell’Ottocento quando, dopo una serie di pesanti sconfitte militari, è passata sotto la sovranità britannica. Non si trattava però di un passaggio definitivo: l’ultimo di questi trattati tra Cina e Regno Unito, stipulato nel 1898, prevedeva che i diritti sulle isole intorno alla penisola di Kowloon sarebbero stati ceduti in affitto alla Gran Bretagna per un periodo di 99 anni. Periodo che è terminato, appunto, nel 1997, quando si è concluso così uno degli ultimi capitoli della storia del colonialismo europeo in Asia.
Il problema è che, nel corso di questo secolo, le cose erano andate un po’ diversamente in Cina rispetto ad Hong Kong. Se la Cina ha visto il trionfo del Partito Comunista e l’ascesa di Mao, Hong Kong invece, in quanto legata politicamente al Regno Unito, ha conosciuto sin da subito il capitalismo occidentale. Così, negli anni Settanta, mentre in Cina i contadini si dividevano i mezzi di produzione e i prodotti agricoli, Hong Kong era già un importante centro bancario e finanziario a livello mondiale. Allo stesso tempo, mentre in Cina il totalitarismo comunista si è instaurato in pianta stabile, Hong Kong conosceva i concetti occidentali di libertà di pensiero e democrazia.
Nel 1997 queste differenze di fondo non potevano essere ignorate: Hong Kong è così tornata alla Cina come regione amministrativa speciale, mantenendo un potere legislativo, esecutivo e giudiziario autonomo e lasciando alla Repubblica Popolare Cinese i compiti di difesa e di rappresentanza a livello internazionale. A capo di Hong Kong sarebbe stato posto un governatore cittadino, inizialmente nominato da Pechino.
Ritorniamo ora ai fatti di questi giorni. In vista delle prossime elezioni politiche, gli studenti di Hong Kong chiedono piena libertà nella scelta del nuovo governatore. La Cina invece vorrebbe istituire una commissione per la scelta di tre candidati, evidentemente vicini al governo di Pechino, e lasciare ai cittadini di Hong Kong sì la libertà di scelta, ma solo tra questi tre. Cosa che appare normalissima in una nazione governata da un solo partito, ma inconcepibile agli occhi dei giovani hongkonghesi, cresciuti “a pane e democrazia”.
Detto questo, le cose sono un tantino più complesse di come sono presentate dai nostri media, in cui appare quasi che la tirannica e spietata Cina stia contrastando con la forza le idee democratiche degli studenti di Hong Kong. Se l’Occidente ha dalla sua una lunga tradizione democratica, che risale addirittura alla polis greca, la Cina è stata un impero fino al 1911, mentre nella lingua cinese la parola “democrazia” è comparsa solo alla fine dell’Ottocento. Prima, tale parola non esisteva, perché non ne esisteva il concetto. In questo senso, il controllo totale che il Partito Comunista ha oggi sulla Cina non è nient’altro che il risultato naturale di un processo storico. La democrazia non si esporta, al massimo si apprende, così come l’ha appresa Hong Kong nel corso di un intero secolo. È un processo di apprendimento estremamente lungo e complesso, che passa anche da momenti di tensione come quelli di Hong Kong.
Dopo anni bui e di declino, oggi la Cina è di nuovo una delle maggiori potenze mondiali. Tuttavia, a mio modesto parere, la Cina non è ancora pronta alla democrazia, perché semplicemente non ne ha la storia, ma situazioni come quella attuale possono essere importanti momenti non di scontro, bensì di confronto. In tal senso, chissà che Hong Kong non si riveli ancora una volta per la Cina una preziosa finestra verso il mondo esterno.