
«O isplendor di Dio, per cu’ io vidi
l’alto triunfo del regno verace,
dammi virtù a dir com’io il vidi!»
(Paradiso XXX, vv.97-99)
Vedere, mirare, occhi, vista: non c’è quasi terzina di questo trentesimo canto del Paradiso che non abbia una ricorrenza di uno di questi verbi o sostantivi. È decisamente il canto della visione: o, per meglio dire, del suo inizio.
Siamo, infatti, entrati nell’Empireo, il luogo dove la visione di Dio, nel racconto di Dante, si farà “faccia a faccia”. Tutto il suo viaggio, per ben novantasei canti, è stato una lunghissima preparazione a quel che di qui alla fine proverà a narrarci.
Proverà. Perché, in realtà, si farà ossessiva l’insistente confessione dell’impossibilità di riferirci ciò che vede, fosse anche il solo splendore di Beatrice: figurarsi, poi, se sia in grado di farci vedere il volto di Dio.
Ma Dante non rinuncia. Dante ci prova comunque. Chiede virtù a dir com’io il vidi (v.99). Ci dice della dissolvenza dei cori angelici, dell’intensificarsi della bellezza di Beatrice, dell’ascesa al decimo Cielo, dello sfavillio di un fiume di luce e della candida rosa dei beati.
E, soprattutto, ci dice che lui ha visto.
Ha visto. Dunque, è possibile che un uomo veda e ce lo venga a dire. Non è lasciata al buio l’ultima parola.
Non che Dante non sia esperto di oscurità umane. Persino in questo canto, persino nelle ultime battute lasciate a Beatrice – che di qui in poi non parlerà più e dovrà cedere il passo alla guida di san Bernardo – c’è spazio per un’invettiva contro l’ingordigia umana. La stoccata finale sarà ancora per un papa, Clemente V: è Clemente V, infatti, il responsabile del trasferimento della sede papale ad Avignone; è Clemente V che, con la sua politica attendista, ha impedito l’opera restauratrice di Arrigo VII. All’indegno pontefice Dante riserva un posto nella stessa buca in cui è punito Bonifacio VIII, tra i simoniaci, in Malebolge; all’imperatore sfortunato è invece preparato un seggio al centro della candida rosa.
Ma torniamo alla nostra visione. Intendo: a quella nostra, e che Dante ci dice essere possibile.
Mi chiedo: che cos’è l’intera storia dell’umanità se non una continua ricerca, un tentativo inesausto di sondare l’ignoto, di strappare il velo di Maya, di illuminare il mistero, in definitiva, di vedere e poter dire ciò che si è visto?
Confesso, quello che mi sta a cuore per davvero, non è tanto ciò che ognuno di noi ritiene di aver trovato. Quel che mi preme il cuore è che ognuno di noi continui a cercare e a voler condividere: specie in tempo di ideologie evaporate, di valori sradicati, di speranze irrisolte e disciolte. Di aridità. Di deserta solitudine. E di paurosi ritorni ad un passato che sembrava definitivamente superato e che invece si ripresenta con inauditi corsi e ricorsi storici.
Confesso, ho sete della sete dell’uomo. Confesso, temo egli la estingua in modi che non appagano. E ho paura della sete repressa. Perché temo generi mostri.
Tu pure?
Victor Hugo: «Il mostro che si crede essere l’eccezione, è la regola. Andate al fondo della storia: Nerone è un plurale».
Antoine de Saint-Exupery: «Vendeva pillole speciali che placano la sete. Ne prendi una alla settimana e non provi più il desiderio di bere. “Perché vendi queste pillole?”. “È un bel risparmio di tempo” disse il negoziante. “Gli esperti hanno calcolato che si guadagnano cinquantatré minuti alla settimana”. “E cosa si fa di quei cinquantatré minuti?”. “Quello che si vuole…”. “Se avessi cinquantatré minuti da spendere” si disse il piccolo principe “me ne andrei lentamente verso una fontana…”».
Siamo alla ricerca di un nuovo umanesimo che ponga al centro degli interessi l’essere umano nella sua molteplice diversità per ritrovare quegli ideali,quei valori oramai liquefatti e che distinguono l’uomo dalla bestia.Il vuoto valoriale è il vero problema della nostra società.
Concordo, Angela cara, concordo.