Ad un primo sguardo di delizia sembra essercene davvero poca, perché nell’immaginario collettivo si associa a un’idea di meraviglia quasi estatica, e mai cupa, quindi incantevole. Ma spesso le definizioni si stirano in significati anche lontani dalla realtà. Secoli di filosofia, letteratura e annessi tentacoli psicanalitici raccontano, infatti, che spesso a incantare è anche l’orrore, l’orrido che, confuso con il grottesco, crea immagini distorte ma autentiche, terrificanti e bellissime, che mandano in confusione non solo per gli elementi convulsi e subito evidenti, ma per i particolari raffinati, cesellati con un’abilità sopraffina, fino a risultare, forse, deliziosa.
Per questo il trittico del Giardino delle delizie di Hieronymus Bosch non poteva avere titolo più adeguato, una sorta di nominativo cucito su misura, un guanto perfettamente calzato da mani affusolate e nodose. Com’erano, forse, quelle capaci e visionarie di Bosch. Mani sibilline, quasi acquatiche, perché immerse in un mondo degli abissi, dove la luce del sole non passa mai a rischiarare anatomie sconosciute o spazi compressi da pressioni atmosferiche disumane. Mani guidate da una mente altrettanto fluida, una mente da viaggiatore onirico che crea un’arte quasi picaresca, mettendo su tela la perfetta rappresentazione dell’inferno che nasconde il paradiso, e spesso anche del contrario.
Colori vividi e una plasticità extraterrestre, così Bosch ha voluto raccontare le scene bibliche del suo Giardino, dalla creazione alla dannazione dell’inferno, in una perfetta inversione del senso accademico: il paradiso è talmente irreale da risultare angoscioso, e l’inferno è talmente angoscioso da risultare grottesco. Una sorta di staffetta, un crescendo simbolico di estrema esposizione immaginifica. L’avremmo mai immaginato un paradiso di rocce antropomorfe su cui si spiaggiano animali dalle strane fattezze, volatili dalle dimensioni pachidermiche, fiori giganti che creano strutture hi-tech sotto le quali trovano riparo uomini e donne rigorosamente nudi? O, ancora, enormi uova che partoriscono gruppi di umani spauriti, frutti grandi quanto monoliti, nature rigogliose e geometriche, figure danzanti con infinite braccia e teste di civetta? L’inferno poi, ha suggestioni che sembrano preannunciare i migliori De Chirico o Dalì: montagne infuocate, fiumi di pece, enormi orecchie da cui si lanciano lame affilate, un uomo-albero cavo in cui si rifugiano ubriaconi, donne ghermite da esseri mostruosi e rospi che si adagiano sui loro seni marmorei.
Tra erotismo, esoterismo e violento cromatismo, il mondo di Bosch, malgrado l’apparenza, è sistematico, perché l’accostamento forsennato delle figure finisce per formare un insieme coerente. Corpi animalizzati e animali antropomorfizzati, proporzioni irreali, vegetazioni “fisiche”, e strutture avveniristiche: tutto si unisce creando mutazioni senza fine, che non hanno più nulla di umano ma che ancora non hanno raggiunto il soprannaturale.