“Happiness is your destiny”, annuncia la fermata “Aeroporto” della linea rossa. Lisbona ti fa un inchino e sei subito dentro alla sua magia, ci sei subito da sempre.
Mentre il suo sole allarga e annebbia le strade del Chiado, guardo la targa dello studio legale di una certa Glòria, advogada e meravigliosamente autotradottasi “laywer”, orario di ricevimento 9.00-22.00.
Sono avvocato anch’io e sto visitando Lisbona insieme a 12 architetti che, in un coro di accenti che prende tutta l’Italia, mi raccontano le grandezze della città contemporanea, quella segreta ed elegante di Gonçalo Byrne, quella dei fratelli Aires Mateus, maestri del bianco e del vuoto, quella di João Luis Carrílho da Graça, che sposa la luce con la pietra.
Il mio viaggio dentro al viaggio è questo: un avvocato non sa decodificare “la pulizia delle linee” di un padiglione Expo o “il punto zero” in cui si congiungono tre pareti, ma se si affida allo sguardo di chi sa, se osserva e interroga – quando li vede, gli architetti, tutti lì a fotografare chissà che cosa e chiede – allora, ciò che è presente si fa visibile e diventa un oggetto reale, che esiste dove prima, nello sguardo di chi non sa, non esisteva.
Fuori dalle macchine fotografiche dei miei architetti, Lisbona si scopre in un gioco di piani, vicoli e incastri, fatto di ristoranti alla moda che si aprono dietro a palestre dismesse, di palazzi che si sopraelevano, gentili e dolenti, sul centro della città. Un gioco di finestre scalcinate, sventrate, addobbate di vasi, fiori, girandole, piante, panni stesi, gabbie di uccellini, drappi rossi con Gesù Bambino. Un gioco dove ogni variazione si evidenzia come la y e la w invertite nella parola laywer, sempre imprevedibile, sempre e comunque iscritta in un ordine più grande, che non si vede ma si sente. Un gioco di accordi che sale dalle chitarre e dai bicchieri di vinho verde per dare voce al fado, così vicino alle sonorità di Napoli, così saggio, così potente. Un gioco tra vecchio e nuovo – dove il vecchio, anche quando non è antico ed è soltanto vecchio – trasuda storia e storie, e il nuovo è consapevolezza del tempo, teso più a durare nel futuro che a rompere con il passato.
Immagini Fernando Pessoa che gira l’angolo di rua Garret e concludi che non poteva che aver guardato queste finestre e respirato quest’aria. Immagini la storia di sangue e conquiste che da lì è passata e da lì è partita, che i portoghesi hanno subìto e che i portoghesi hanno scritto. La senti sulle tue spalle, la riconosci nel tuo DNA. E capisci che la materia – antica, nuova o vecchia che sia, proiettata al futuro o abbandonata al passato che sia – ha in sé la memoria di una città di porto perché porta, in ogni senso: porta tra due mari, porta aperta al destino, porta da cui l’Europa, affacciandosi sul Mediterraneo, diventa l’altro di cui è un po’ figlia, un po’ sorella, un po’ alter ego – il Medio Oriente. Come il “punto zero” in cui “fugano” le tre pareti della casa progettata dagli Aires Mateus, quella confusione perfetta, l’eternità di quell’attimo è Lisbona.