TTIP: in un particolare periodo storico nel quale siamo invasi da acronimi, sigle, tasse e pseudo alleanze politiche, ci siamo trovati, recentemente, di fronte a quattro lettere che hanno catturato la nostra curiosità.

Ci sono sigle che ci lasciano a bocca aperta, la bramosa invadenza che tange il timore di non sapere, una bonaria ignoranza, insomma, tra le cui braccia conviene abbandonarci per non spingerci oltre i confini della lecita razionalità.

Spiegare in sintesi cosa sia il TTIP (Transatlantic Trade and Investment Partnership) non è semplice, ma diventa strettamente necessario al benessere delle nostre coscienze e di quelle delle generazioni future. Se dovessi descrivere ad un bambino i punti cardine di questa convenzione, comincerei senz’altro col dire che si tratta, principalmente, di un accordo transatlantico stipulato tra Unione Europea e Stati Uniti, patto che sancisce la liberalizzazione commerciale del mercato internazionale, un anarchico scambio di merci e prodotti non più assoggettati a tariffe e controlli doganali.

Abilmente celata dietro vantaggiose maschere di democrazia, la cordata rappresenta una seria minaccia alla salute ambientale delle nostre terre e, di conseguenza, alla genuinità dei nostri prodotti alimentari. Il TTIP, infatti, non garantisce propriamente una libertà d’azione imprenditoriale, ma punta ad abbattere quelle barriere doganali indispensabili per la nostra sicurezza, tornelli scrematori, filtri che selezionino il cibo sulle nostre tavole.

Senza normative standard a regolamentare il mercato tra UE e USA rischieremmo, peraltro, di importare dalla capitalistica macchina “sfornasoldi” americana carni imbottite di ormoni, polli lavati nel cloro, alimenti geneticamente modificati o trattati, addirittura, con glisofato, pericoloso pesticida al quale, tra le altre cose, non verrebbe applicata alcuna etichetta identificativa, impedendoci, così, di discernere cosa mangiare e cosa depennare dalla nostra lista della spesa.

Non solo, approvando il TTIP svaluteremmo i prodotti tipici della nostra storia agricola e contadina mettendo a repentaglio oltre seicentomila posti di lavoro, e valorizzando, invece, merce d’oltreoceano a basso costo e di pessima qualità.

D’accordo, sviscerare tutte queste nozioni ad un bambino non sarebbe poi così complicato anche se, lo so già, mi guarderebbe con aria attenta ed esterrefatta, ma son certo che proverei forte imbarazzo se quella giovane e ingenua anima mi chiedesse come mai la tanto millantata globalizzazione non coinvolga anche quelle masse di disperati accolti da spiagge deserte e governi menefreghisti, eppure, lì, filtri non dovrebbero essercene, nessuna razza umana può dirsi geneticamente modificata, etichettata, umiliata.

Valorizzando una politica d’oltreoceano, renderemmo vergognosamente omaggio ad una ragion di stato a basso costo e di pessima qualità.