
Il terrorismo di stampo islamico insanguina il mondo in nome di Dio; alcuni stati teorizzano e praticano la guerra preventiva come guerra giusta; l’umanità sembra avviata verso un terribile scontro tra civiltà; esplodono forti tensioni sociali in vari luoghi a seguito di crescenti flussi migratori; le intelligenze e le coscienze sono disorientate dal relativismo morale del “fai da te”; il “pensiero unico” spinge verso un individualismo e un egoismo esasperati.
L’autoreferenzialità dei comportamenti di gruppi e nazioni, anche se compiuti dalla totalità delle persone, qualora si svolgano all’interno di una rottura di relazioni o a livelli più ampi, possono definirsi giusti?
Se in nome di una presunta giustizia talvolta si annienta la gente, la si priva della libertà, la si spoglia degli elementari diritti umani, è segno che tale giustizia da sola non basta.
Se le soluzioni dei problemi avvengono attraverso la vendetta o la violenza reciproca, o la punizione esemplare e preventiva, è segno che ci troviamo di fronte alla difesa della propria autoconservazione che inesorabilmente innescherà, per tale tutela, logiche chiamate pena di morte – guerra giusta o santa. È questo il nostro mondo contemporaneo caratterizzato da un groviglio di contraddizioni, tensioni, minacce contro la libertà e la pace, avvolto da un clima di diffusa inquietudine e paura.
Ma “la giustizia” non è una nozione astratta: è un fare ciò che è retto nelle relazioni.
La giustizia non richiede semplice astensione dal male, ma un costante atteggiamento che miri a perseguire scelte positive. L’opposto di giustizia è malvagità. Il fallimento nell’adempiere agli obblighi di giustizia conduce indirettamente al rovesciamento della stabilità sociale e, in ultima analisi, al minare deliberatamente la struttura sociale stessa.
L’evangelista Matteo all’inizio dei suo Vangelo introduce l’icona di Giuseppe, con l’attributo dìkaios (che svolge opere di giustizia – Mt 1,19). In occasione dell’imbarazzante situazione in cui Maria si trova incinta prima che andasse a vivere insieme a Giuseppe, costui ha il diritto di ritenersi leso e di procedere, secondo la prassi legale, alla pubblica denuncia con l’eventuale conseguente lapidazione della sua donna.
Il suo essere giusto consiste nella scelta di non far valere un proprio diritto, per dare ancora una possibilità all’altra. S’intuisce qui che “giusto” si arricchisce della qualità di buono, misericordioso, attenzione all’altro e al suo destino. La giustizia quindi non può essere una rivendicazione di diritti, ma deve lasciarsi fecondare da una sapienziale umanità, benigna e discreta; per cui non chi osserva la legge alla lettera è giusto, bensì chi ne coglie il senso anche rinunciando a un diritto per offrire un po’ di misericordia e di premura. Così si crea un ambiente dove le ferite prodotte dall’offesa si rimarginano e i vincoli spezzati dal legalismo si saldano di nuovo: una simile giustizia implica rinunzie in vista della massima forma di condivisione dialogica.
Occorre quindi mettere al centro realisticamente la “relazionalità” come bene supremo della vita umana verso cui tendere come un pellegrinaggio personale e storico che si svolge sul crinale di due opposti abissi, scrive il cardinal Martini (Verso Gerusalemme, Milano, Feltrinelli 2002): da una parte c’è il bagliore, inestinguibile e accecante della luce pura e ardente che supera ogni parola umana; dall’altra c’è la tenebra dell’errore, della volontà di potenza che può giungere a servirsi della verità più sacra, per giustificare ogni violenza. Questo cammino ci vede solidali: non solo con gli uomini a noi contemporanei, ma con gli uomini delle epoche che ci hanno preceduto e che seguiranno.