«Genti v’eran con occhi tardi e gravi,

di grande autorità ne’ lor sembianti:

parlavan rado, con voci soavi»

(Inferno, IV, vv.112-114)

Caro lettore, adorata lettrice,

non sempre sono d’accordo con Dante: mi è più facile ritrovarmi in Virgilio. Che poi, lo sappiamo bene: Virgilio pur sempre Dante lo ha creato e dietro lui si nasconde…

Il canto quarto dell’Inferno è esemplare per quanto provo a dirti e, come sempre, ne raccomando la lettura invece che perdere tempo con le mie parole. È un canto che inizia con i «sospiri» (v.26)  e termina con «l’aura che trema» (“un’aria burrascosa”, v.150), «ove non è che luca» (v. 151): dove nulla ha luce.

Lo svenimento di Dante, alla fine del canto terzo, è servito da ellissi: il viaggio sulla barca di Caronte se l’è fatto dormendo, non ce l’ha descritto e ce lo ritroviamo ora già al di là dell’Acheronte, in quello che comunemente viene chiamato Limbo. Si tratta di un posto che non è ancora inferno, ma che per certi versi è molto peggio, almeno per come ce lo descrive Dante teologo mediovale, proprio colui con cui, per l’appunto, non vado affatto d’accordo.

Figlio del suo tempo, ligio ai suoi schemi, Dante colloca in questo “non regno”, né di luce né di buio, coloro che «non peccaro», che «hanno mercedi», ma «non basta, perché non ebber battesmo»: si tratta di quanti, vissuti prima della venuta di Cristo, pur senza aver peccato, pure avendo fatto opere buone («mercedi»), «non adorar debitamente Dio» perché non battezzati (vv. 34-38); e tra questi Dante colloca lo stesso Virgilio, il suo “duca”, anch’egli tra coloro che, non per colpa, ma per una deficienza non a loro imputabile, sono definitivamente scartati, condannati a vivere «sanza speme» e «in disio»: senza speranza di poter mai vedere quel Dio del cui desiderio ardono.

Non ci siamo. Non ci siamo proprio. E lo sa lo stesso Dante. Tant’è  – qui il segreto della sua grandezza – che quanto non riesce a capire con la sua teologia, lo fa dire a Virgilio. Dante lo vede pallido in volto, gli chiede come potrà seguirlo se lui stesso ha paura e Virgilio risponde: «L’angoscia de le genti che son qua giù, nel viso mi dipigne quella pietà che tu per tema senti» (vv.19-22).

Non è paura a scolorire le guance di Virgilio. È compassione. È con-sentire l’angoscia di chi si vede escluso dalla Luce a dispetto dei suoi meriti, di chi è stato luminoso in vita e si vedrebbe relegato all’oscurità in morte. Una condizione inaccettabile. Inaccettabile anche per Dante figlio del Medio Evo. E perciò si inventa la pietà di Virgilio che sbaraglia il campo. Segniamocela questa parola, pietà, vedremo che volo ci farà fare nel prossimo canto. Per ora limitiamoci a dire che è per pietà che Dante si inventa un “nobile castello”, che brilla di luce propria e accoglie le anime dei magnanimi, di quanti magari non vissero come stinchi di santo – si pensi, per ragioni diverse, a Cesare o Ovidio – ma di certo non possono essere destinati all’inferno.

Ecco, cosa mi riconcilia con Dante anche quando non sono d’accordo con Dante, anche quando Dante non è d’accordo con se stesso: la sua capacità di operare uno scarto, prendere tutto il suo retaggio culturale e buttarlo nel cestino. Il suo dire: no, Socrate, Platone e Aristotele, Ippocrate, Avicenna e Galeno, Omero, Orazio e Cicerone, e via via tutti gli altri, non possono finire perduti, perché siamo noi che non ce li possiamo perdere.

Siamo noi ad aver bisogno della loro luce, siamo noi ad aver bisogno di gente dal cuore largo e mente chiara, essi sono nostri e noi siamo loro, a prescindere dagli schemi, dai recinti istituzionali, dai certificati di ortodossia. Quando incontri una donna o un uomo radiosi, sembra dirci Dante, mettiti al suo seguito, lui «primo» e tu «secondo» (v. 15): sarà lui a farti vedere Dio. E poco conta se si tratti di un battezzato, di un ateo o di un credente: conta il cuore grande e la mente aperta. Conta che ami l’uomo, ogni uomo, tutto l’uomo. Prima di tutto, l’uomo, come canta Nazim Hikmet.

In un altro contesto, che però ben si adatta al nostro, Leopardi ha scritto: «O la immaginazione tornerà in vigore, e le illusioni riprenderanno corpo e sostanza in una vita energica e mobile, e la vita tornerà ad esser cosa viva e non morta, e la grandezza e la bellezza delle cose torneranno a parere una sostanza e la religione riacquisterà il suo credito; o questo mondo diverrà un serraglio di di disperati, e forse anche un deserto».

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La mia fortuna? Il dono di tanto amore che, senza meriti, ricevo e, in minima parte, provo a restituire. Conscio del limite, certo della mia ignoranza, non sono mai in pace. Vivo tormentato da desideri, sempre e comunque: di imparare, di vedere, di sentire; di viaggiare, di leggere, di esperire. Di gustare. Di stringere. Di abbracciare. Un po’ come Odysseo, più invecchio e più ho sete e fame insaziabili, che mi spingono a correre, consapevole che c’è troppo da scoprire e troppo poco tempo per farlo. Il Tutto mi asseta. Amo la terra di Nessuno: quella che pochi frequentano, quella esplorata dall’eroe di Omero, ma anche di Dante e di Saba. Essere il Direttore di "Odysseo"? Un onore che nemmeno in sogno avrei osato immaginare...

1 COMMENTO

  1. … ed anche se par la desertificazione sopravvenire sulli fertili campi, collo supremo poeta e codesto pio articolo, nova speranza ancora più fertile i campi rinnova.

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