Quali le ragioni di variabilità nella risposta del nostro organismo allo stesso patogeno?
A più di un anno dall’inizio della pandemia da SARS-Cov-2 molte cose abbiamo imparato e molte rimangono ancora da capire ed indagare. Tra queste ultime, l’estrema variabilità e diversità del decorso della malattia Covid-19. Abbiamo visto in pratica come tante persone infettate dal virus non sviluppino alcun sintomo evidente della malattia Covid-19 (soggetti, questi, definiti asintomatici), oppure sintomi lievi (soggetti paucisintomatici); mentre in alcuni casi il virus è capace di aggredire l’organismo in forma sistemica, colpendo molti organi e tessuti e provocando una grave insufficienza respiratoria che può portare alla morte. Una condizione questa che si è inizialmente manifestata soprattutto in persone anziane e/o con patologie debilitanti, ma che a volte può colpire anche persone molto giovani e senza comorbidità.
Quali possono essere le ragioni di questa variabilità nella risposta del nostro organismo allo stesso patogeno?
Le ragioni possono essere tante e si possono cercare studiando diverse variabili:
1) la velocità e la “qualità” delle mutazioni a cui può andare incontro il virus (le famose varianti) che lo possono rendere più o meno competente ad infettare e a causare letalità;
2) le condizioni ambientali che possono favorire la trasmissione del virus da individuo a individuo (per esempio il mancato utilizzo di dispositivi di sicurezza, come le mascherine, il distanziamento interpersonale, le scarse condizioni igieniche, l’inquinamento atmosferico, la temperatura e umidità dell’aria, la mancata aerazione e sanificazione degli ambienti chiusi, ecc.);
3) le condizioni fisiopatologiche, immunitarie e genetiche dell’ospite, cioè dell’uomo.
Non c’è dubbio che queste tre (e magari tante altre ancora) variabili agiscono in associazione o in sinergia e che, quindi, per vincere la battaglia contro l’invasore virale occorra “pianificare” strategie multisistemiche e su più fronti. Tuttavia, ci possono essere dei fattori dominanti che rendono l’ospite più suscettibile a sviluppare un decorso severo della patologia.
Bisogna innanzitutto precisare che nella maggior parte dei casi le nostre prime linee di difesa combattono l’invasore senza che neppure ce ne accorgiamo. Il nostro sistema immunitario, quindi, mette in atto strategie di attacco e armi diverse (anticorpi) per fronteggiare ogni tipo di patogeno. Se però un patogeno riesce a superare la resistenza iniziale del sistema immunitario, o perché il sistema immunitario è debilitato, oppure non pronto a fronteggiare il “nuovo” invasore, può causare le gravi condizioni patologiche del Covid-19.
Può anche capitare che molte persone soccombono all’infezione virale perché traditi “dall’eccesso di zelo” del loro stesso sistema immunitario; può scatenarsi in pratica una reazione esageratamente violenta delle difese immunitarie che, anziché proteggere dal virus, attaccano tutti gli organi del paziente, fino ad ucciderlo. Una condizione, questa, chiamata “tempesta citochimica” (produzione elevata ed esagerata di specifiche molecole chiamate citochine) nei pazienti Covid-19. Tuttavia, secondo uno studio recente, pubblicato sulla rivista scientifica, Science Advances, solamente il 4 per cento dei pazienti gravi mostra cellule immunitarie impazzite e fuori controllo e comunque, oggi, anche se con efficienza variabile, la scienza medica ha sviluppato approcci terapeutici per tenere a bada le “follie” del sistema immunitario.
Altri fattori e altre (con)cause devono necessariamente entrare in gioco per spiegare l’estrema variabilità dell’infezione da virus SARS-CoV-2 e il decorso più o meno grave della malattia Covid-19.
Studi recenti pubblicati su Science hanno dimostrato che quasi il 15% delle forme più gravi di Covid-19 è strettamente legata a fattori genetici e immunologici.
In questo contesto, sul banco degli imputati nello sviluppo delle forme più gravi di Covid-19 sembrerebbe esserci una alterazione dell’attività di una molecola, l’interferone di tipo I, il quale ha una attività antivirale, ha la capacità di regolare le funzioni del sistema immunitario e di regolare la crescita e il differenziamento cellulare (ossia, la capacità delle cellule di acquisire funzioni specializzate in base al tessuto di cui fanno parte).
È stato quindi scoperto che nel 10% dei casi con forme gravi di Covid-19 l’organismo produce anticorpi “sbagliati”, i quali vanno erroneamente ad attaccare l’interferone I al posto del virus, con un meccanismo tipico delle malattie autoimmuni. In un secondo studio è stato invece scoperto che un altro 3,5% dei casi severi di Covid-19 mostrava una mutazione genetica a carico del gene che codifica per l’interferone, limitandone di conseguenza la sua produzione e lasciando campo libero all’infezione virale.
Scoperte importanti queste che possono aiutare a sviluppare approcci terapeutici (oltre allo sviluppo di vaccini sempre più efficaci) per i pazienti più a rischio, somministrando la molecola di interferone nelle fasi iniziali della malattia e provare a ridurre l’impatto letale del virus.
C’è un’altra sorprendente scoperta che merita di essere raccontata e tenuta in grande considerazione per cercare di spiegare la variabilità dell’infezione da virus SARS-CoV-2 e la gravità della malattia Covid-19. Una scoperta che ci riporta indietro di circa 60 mila anni, quando l’Homo Sapiens incontra il Neanderthal e …ci finisce a letto!
Lo studio, pubblicato sulla prestigiosa rivista Nature riprende un precedente lavoro pubblicato sul New England Journal of Medicine, rivela come alcune varianti genetiche presenti sul cromosoma 3, siano associate ad un rischio triplo, rispetto ai soggetti sprovvisti di queste varianti, di sviluppare una forma severa di Covid-19. In pratica, analizzando l’intero genoma di 3.199 pazienti che avevano sviluppato una forma severa di Covid-19, si scopre che: 1) i pazienti con gruppo sanguigno A hanno un rischio quasi doppio di ammalarsi in modo serio e 2) alcune varianti genetiche presenti sul cromosoma 3 erano troppo frequenti per essere mutazioni casuali.
Parte così la sfida per cercare di capire il valore prognostico ed evolutivo di queste varianti e si scopre, interrogando un database di genomi arcaici di tutto il mondo, che la specifica sequenza genica riscontrata in molti pazienti gravemente ammalati era presente in modo molto simile in un uomo di Neanderthal vissuto in Croazia 50.000 anni fa. La regione genetica identificata è inoltre molto lunga e comprende oltre 49.000 paia di basi che vengono trasmesse tutte insieme. Si tratta, in particolare, di una specifica combinazione di sei geni sul cromosoma 3, vale a dire un aplotipo di loci che sono stati ereditati tutti insieme.
Secondo gli autori dello studio, Zeberg e Pääbo, la combinazione di geni è stata introdotta quando le due specie, Homo Sapiens e Neanderthal, si sono incrociate, circa 60.000 anni fa, portando alla generazione di una progenie che si è portata dietro nel proprio genoma le tracce di queste ibridazioni, anche quando Sapiens ha definitivamente sostituito la specie neandertaliana.
Analizzando inoltre la distribuzione geografica si è scoperto che questo aplotipo, è presente nel DNA di circa la metà degli individui in Asia meridionale e nel 16% degli europei, mentre è molto più rara nell’Asia orientale e in Africa.
Quello che tuttavia rimane da chiarire è perché questo aplotipo, questo frammento del cromosoma 3, aumenti il rischio di sviluppare la forma grave del Covid-19 e soprattutto perché è stato mantenuto ed ereditato nel corso dell’evoluzione.
Studiando i meccanismi evolutivi, possiamo immaginare che questo aplotipo abbia avuto una pressione positiva per essere “sopravvissuto” alla selezione per oltre 60 mila anni; e questo potrebbe essere spiegato ipotizzando che questo aplotipo potrebbe aver protetto i Neanderthal da alcune malattie infettive che oggi non esistono più e che invece oggi si sta rivelando svantaggioso e dannoso per combattere l’infezione dal virus SARS-CoV-2.
Chissà come sarebbe andata a finire se l’Homo Sapiens non avesse fatto il “piacione” con i Neanderthal.
“È affascinante pensare – come affermato dal Dr. Yang Luo a commento dell’articolo scientifico – come l’eredità genetica dei nostri antenati potrebbe aver svolto un ruolo importante nell’attuale pandemia.
Tuttavia, se rimane ancora aperta la questione del reale impatto del DNA ereditato da Neanderthal sulla risposta dell’organismo all’infezione virale, non c’è dubbio invece che i comportamenti dell’uomo moderno abbiamo un impatto significativo sul controllo e la gestione della pandemia.