La differenza tra i due opposti: la fragilità e la forza

Controsenso: usi e abusi delle parole quotidiane

Bisogna essere forti, sempre. Bisogna rialzarsi in fretta dalle cadute, stare sempre al massimo per ottenere il massimo, altrimenti si rischia di dubitare di sé fino alla patologia, alla depressione o al narcisismo esasperato. E poi bisogna andare avanti, sempre e costantemente, fino allo sfinimento. Avanti. Veloci, convinti, sicuri; per chi ha il passo più lento ci si dispiace, al massimo.

Se il lavoro viene meno o, peggio, la morte irrompe nella quotidianità tra gli affetti più cari, bisogna essere forti. È bene anche che i bambini imparino ad essere forti, così possono difendersi meglio: “se ti fai pecore, il lupo ti mangia”, dicono i nonni. Non lo sanno, ma anche Hobbes la pensava così: l’uomo è lupo per l’uomo e la guerra di tutti contro tutti è un tratto sociale ineludibile. Per questo bisogna essere forti.

Ma chi l’ha detto? La società lo chiede.

E chi è la società? Siamo noi a creare determinati modelli e ad inseguirli. E oggi il mito della forza governa ogni contesto, basti pensare che la risposta di certi politici alla delinquenza sta nel rendere le città sempre più blindate e pattugliate. Non che sia una cattiva idea aumentare la sorveglianza nei nostri quartieri, ma bisogna chiedersi sempre cosa c’è dietro. Ad esempio puntare sulla paura come fattore di controllo sociale, per renderci sempre più sospettosi gli uni verso gli altri, trincerati nelle nostre abitazioni e aggrappati a un continuo, irrefrenabile bisogno di difesa, significa propagandare la forza come unica ragione di vita e di ordine pubblico.

Un altro esempio: le richieste di aiuto psicologico sono in aumento nella fascia d’età comprendente l’infanzia e l’adolescenza e gli psicoterapeuti testimoniano come una costante nelle storie ascoltate sia una certa fragilità non affrontata, non abbracciata (si legga in proposito “Oltre le passioni tristi” di Miguel Benasayag). Questo ha quasi sempre a che fare con le emozioni: quanto bambini e adolescenti sono e-ducati ad esprimere ciò che sentono? E qui sorge un’altra domanda: quanto tempo gli adulti dedicano loro per ascoltarli e aiutarli a tirar fuori tutto?

Le emozioni sono preziose, le temiamo perché ci svelano, ci mettono a nudo e questo sa troppo di debolezza per poterlo accettare! Eppure un’adeguata riconciliazione con le proprie ferite e con la propria fragilità passa necessariamente da una corretta alfabetizzazione emozionale, della quale si registra una drammatica assenza nello stato attuale della pedagogia.

I bambini, gli adolescenti non sono mini-adulti: avranno tempo per “cavarsela da soli” e “imparare a non arrendersi”, per ora hanno il diritto di piangere e arrabbiarsi, di essere tristi o semplicemente felici, senza motivo, e di trovare attorno a loro figure educative appassionate alle loro storie, ai loro drammi, o semplicemente disponibili ad offrire un abbraccio d’incoraggiamento. Un certo stoicismo pedagogico, in grado solo di spronare ad andare avanti e ad essere vincenti, può seminare danni irreparabili.

C’è una parola che tutti dovremmo riscoprire ed utilizzare: resilienza. È la valida alternativa della resistenza: a resistere, resistere, resistere …prima o poi ci si spezza. La resilienza educa invece a piegarsi alle avversità della vita, a modellarsi sotto i colpi dei venti contrari, per ritornare diritti con serenità. È la metafora del salice piangente: i suoi rami sono sottili e il suo fusto suggerisce meno vigore rispetto a quello di una grande quercia; ma i rami di questa si spezzano facilmente al soffiare dei venti forti, mentre quelli del salice si piegano, ondeggiano insieme alla tempesta e non si spezzano. La loro delicatezza ed elasticità è la loro forza. La forza del salice piangente: sembra quasi un paradosso, quale forza può nascondersi nelle lacrime? Tanta.

È vero, la vita quotidiana non è intessuta di tranquillità e, volenti e nolenti, a fine giornata, mese o anno si devono presentare risultati e soddisfare obiettivi. Si può farlo, però, attraverso una forza diversa, una forza tenera, impastata di emozioni non represse e, per questo, più aperta all’altro e meno impegnata a schiacciarlo per difendersi e superare le avversità con il minor danno possibile.

Una testimonianza di Vittorino Andreoli, psicoterapeuta, conferma tutto ciò e fa bene al cuore: «Sento forte il desiderio di svelare la mia fragilità, di mostrarla a tutti coloro che mi incontrano, che mi vedono, come fosse la mia principale identificazione di uomo, di uomo in questo mondo. Un tempo mi insegnavano a nascondere le debolezze, a non far emergere i difetti, che avrebbero impedito di far risaltare i miei pregi e di farmi stimare. Adesso voglio parlare della mia fragilità, non mascherarla, convinto che sia una forza che aiuta a vivere. “Fragilità” ha la stessa radice di frangere, che significa rompere. La fragilità di un vetro pregiato di Murano o di un cristallo di Boemia: bello, elegante, ma basta poco perché si frantumi e si trasformi in frammenti inservibili. “Fragile” significa anche delicato, gracile. Come un fiore: basta un colpo di vento e un petalo si stacca e perde il suo profumo, divelto dalla sua funzione, muore. Il contrario di fragile è resistente, tetragono, indistruttibile. Si pensa agli oggetti in acciaio, alle rocce di una montagna. All’uomo di roccia, non di vetro, all’uomo potente, non fragile: c’è e tra un attimo potrebbe svanire, pezzi di un’unità defunta, come non fosse mai stato. Si sente dire che l’educazione deve edificare un bambino forte, un uomo di coraggio che affronta le lotte e le vince. La timidezza, invece, va curata e prima ancora nascosta; la paura va dimenticata e sostituita con la potenza e per questo ci si allena a battere un nemico, prima immaginario e poi di carne; e l’abilità sta proprio nel romperlo e non nel venire rotti. Ecco la differenza tra i due opposti: la fragilità e la forza».

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Sono un'insegnante, anche se il più delle volte sono io quella in-segnata dai miei studenti. Sono una ricercatrice, perché cerco piste di rilevanza pubblica per una materia troppo fraintesa e troppo di nicchia: la teologia. Sono una giornalista e faccio cose con le parole. "Quello che non ho è quel che non mi manca" (F. De André) e sono immensamente grata alla vita perché, non senza impegno e sacrificio, "ho trovato amore nel mezzo de la via, in abito legger di peregrino" (Dante Alighieri, Vita nova)