“Voi occidentali avete l’ora, ma non avete mai il tempo”

(Mahatma Gandhi)

È il tempo la dimensione umana per eccellenza, perché come ogni cosa che umana possa dirsi, non ha una definizione che metta d’accordo tutti. Né possiede una durata che sia valida in modo universale.

Non è certo un caso se Dalì, negli orologi molli, aveva punito l’unico orologio “duro” dell’intero dipinto ricoprendolo di formiche, insetti che lo terrorizzavano dacché era bambino, quasi a voler colpire la sua presunzione di fissità.

Io ho idea che quel dipinto si chiami, in realtà, “La persistenza della memoria” semplicemente perché è la memoria a cambiare la forma dei ricordi e del vissuto; tutto ciò che è memoria, infatti, è soggettivo, assolutamente personale, mutevole e relativo. Opinabile eppure indiscutibile. Tutto ed il suo opposto.

Semplice: l’uomo, quanto di meno oggettivo sia stato creato, fatto di età, cultura, contesto, aspettative, emozioni, sentimenti, che modificano inesorabilmente ogni esperienza in termini temporali.

Certo, volendo andare a parare al sostanziale si vince facile: il tempo cronologico è scandito da lancette e calendari, non ci può fregare nessuno ma quello che ci qualifica è il tempo interiore. Il come e non il quanto. E, se volgiamo, il perchédecidiamo infilare qualcosa in un certo tempo ed il come quel qualcosa possa renderlo, per ciascuno, più o meno significativo.

Siamo le decisioni che prendiamo, dunque siamo il modo in cui spendiamo il nostro tempo.

In trenta minuti posso pensare di non utilizzare un mezzo di trasporto e percorrere a piedi un sentiero, giungendo in orario a destinazione. Non ho concluso granché, ho solo fatto la strada. Certo, magari avrò ascoltato il mio bisogno di solitudine e silenzio: nutrito un momento di riflessione.

Nei medesimi trenta minuti posso, però, cercare delle alternative: non solo posso, se è il caso, scegliere di entrare in auto, ma magari di incontrare qualcuno. In quei trenta minuti avrò salutato un altro essere umano, avrò potuto parlargli, avrò creato un momento di confronto.

Orbene, nessuna delle due possibilità può dirsi sbagliata, proprio perché dettata da esigenze soggettive, ma le cose cambiano se ci facciamo soggiogare dalla cronologia fissa.

Se, per intenderci, il nostro piacere fosse stato dettato esattamente dall’intenzione di incontrare qualcuno e ci fossimo, invece, fatti vincere dall’idea che in effetti trenta minuti sono niente, forse avremmo avuto ragione, ma più probabilmente ci saremmo regalati una stupida rinuncia dettata da motivi razionali e, proprio per questo, senza spessore.

Chi lo ha detto che trenta minuti sono niente? Chi lo ha dimostrato?

Come sul pianoforte di Baricco (e di chiunque) c’erano 88 tasti, ma su quegli 88 tasti infinita era la musica che si poteva fare, così funziona con il tempo: 30 minuti sono 30 minuti. Inestimabile è ciò che se ne può ricavare, se si sceglie di fare di loro quello che, nella sfera della razionalità, sembrava folle.

Con la ragione non si può profetare, con la ragione si fa la statistica ed è un’altra storia.

La comprensione del futuro condotta su base irrazionale è la chiave: Cassandra, nessuno la riteneva credibile, eppure guardava al di là di ciò che era davanti a lei. Era folle: profetava il vero.

Credo, pertanto, che giudicare 30 minuti o contare 88 tasti per ciò che sono, sia uguale a “mettere la testa a posto”: in altri termini trasformarsi in un uomo limitato, che magari non è capace di rinunciare a guardare il cellulare nello stesso istante in cui vibra, come questo implicasse il crollo della crosta terrestre.

Come dire che al posto della corsa di trenta minuti, meglio niente. Tzè, baggianate! Piuttosto che niente, è meglio piuttosto, poiché tutti saremo giudicati pazzi mentre balliamo, da chi non sente la musica.

E chi non sente la musica, guardandoci ballare, va in crisi. Crisi viene da crino, e crino significa esattamente “giudico”. Bene, sono fermamente convinta che sarebbe più sano riformularlo il giudizio sul tempo, anziché darlo una volta per tutte, perché sono pronta a giurarlo, fra niente e trenta minuti, c’è l’infinito e ci sei tu che devi compiere un atto di coraggio: scegliere, follemente, di andare a prendertelo!


FontePhotocredits: Myriam Acca Massarelli
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Sono una frase, un verso, più raramente una cifra, che letta al contrario mantiene inalterato il suo significato. Un palindromo. Un’acca, quella che fondamentalmente è muta, si fa i fatti suoi, ma ha questa strana caratteristica di cambiare il suono alle parole; il fatto che ci sia o meno, a volte fa la differenza e quindi bisogna imparare ad usarla. Mi presento: Myriam Acca Massarelli, laureata in scienze religiose, insegnante di religione cattolica, pugliese trapiantata da pochissimo nel più profondo nord, quello da cui anche Aosta è distante, ma verso sud. In cammino, alla ricerca, non sempre serenamente, più spesso ardentemente. Assetata, ogni tanto in sosta, osservatrice deformata, incapace di dare nulla per scontato, intollerante alle regole, da sempre esausta delle formule. Non possiedo verità, non dico bugie ed ho un’idea di fondo: nonostante tutto, sempre, può valerne la pena. Ed in quel percorso, in cui il viaggio vale un milione di volte più della meta ed in cui il traguardo non è mai un luogo, talvolta, ho imparato, conviene fidarsi ed affidarsi.