«Bisogna bruciare per arrivare consumati all’ultimo fuoco.

 La conoscenza è nella nostalgia.

 Chi non si è perso non possiede»

(Pier Paolo Pasolini)

È quello che succede a quelli che se ne vanno, che gli altri continuano la vita senza di lui: cito a memoria queste parole, così come ricordo di averle ascoltate durante la visione del film “Le otto montagne”, tratto dall’omonimo libro di Paolo Cognetti. Una frase che mi ha folgorato e mi ha fatto riflettere su chi va e chi resta, su chi si perde e chi si ritrova.

Il libro lo avevo letto e apprezzato anni fa, è del 2017. Il film, invece, scritto e diretto da Felix Van Groeningen e Charlotte Vandermeersch, è del 2022 e l’ho visto in settimana: ne ho goduto molto, intanto perché è fedele al libro, cosa che non sempre succede, e poi per la vena di tristezza che lo pervade.

In realtà, non so se “tristezza” sia la parola giusta: potrei anche provare a definirla in termini di mancanza, privazione, senso di incompiutezza, qualcosa di prossimo al concetto che i portoghesi rendono con la parola saudade.

Pietro e Bruno, i protagonisti del racconto, sono due amici strani, che si ritrovano più nell’assenza che per la presenza, più per le parole non dette che nelle ben poche che pronunciano, più per ciò che non compiono e per i fallimenti delle rispettive esistenze che non per chissà quali grandi imprese.

Eppure si ritrovano. Si ritrovano sempre.

O quasi sempre: non vorrei spoleirare il finale per chi intendesse leggere il libro o vedere il film – io consiglierei entrambe le opzioni, a partire dal libro ovviamente.

E così ho pensato: quante volte ci perdiamo e non è detto che ci si possa ritrovare? In quante occasioni, invece, qualcuno ci tende la mano quando meno ce l’aspettiamo oppure siamo noi a riannodare una relazione smarrita?

L’amico ritrovato di Fred Uhlman, altra lettura della mia lontanissima adolescenza, è solo il più classico degli esempi. In realtà di smarrimenti e, talvolta, inusitati ritrovamenti è piena l’esistenza di ciascuno di noi.

Credo sia questo che ci renda, che ci faccia sentire, mancanti, intendo: radicalmente incompiuti, incompleti, imperfetti.

Per quanto noi si possa cercare di trattenere, custodire, conservare, avere cura, il tempo ci trapassa, ci porta e trasporta e fa che non siamo oggi ciò che avevamo creduto ieri, che non saremo domani ciò che vorremmo oggi. Il che non significa che non si possa essere molto più dei nostri limiti. Il che non concede un’impune licenza di trascurare ciò che siamo stati, ciò che siamo, ciò che saremo. Il che obbliga, tuttavia, a lasciare andare chi o cosa si deve lasciar andare. Perché l’ha deciso o perché è così, punto.

Ecco, saudade: “mancanza” o anche “meraviglia dell’essere”. Sì, perché, per quanto insufficienti e transeunti, noi siamo. Qui ed ora. Io e tu, tu ed io. E questo ci rende ardenti. Ovvero: capaci di consumarci per dare luce, per divenire fiamma. Fino all’ultimo barlume.

Jean-Paul Sartre: «Non facciamo quello che vogliamo e tuttavia siamo responsabili di quel che siamo».

Alda Merini: «A pelle si sentono cose a cui le parole non sanno dare nome».

Rubem Azevedo Alves: «Dio abita la nostalgia, laddove sono riuniti l’amore e l’assenza».


FontePhotocredits: Paolo Farina
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La mia fortuna? Il dono di tanto amore che, senza meriti, ricevo e, in minima parte, provo a restituire. Conscio del limite, certo della mia ignoranza, non sono mai in pace. Vivo tormentato da desideri, sempre e comunque: di imparare, di vedere, di sentire; di viaggiare, di leggere, di esperire. Di gustare. Di stringere. Di abbracciare. Un po’ come Odysseo, più invecchio e più ho sete e fame insaziabili, che mi spingono a correre, consapevole che c’è troppo da scoprire e troppo poco tempo per farlo. Il Tutto mi asseta. Amo la terra di Nessuno: quella che pochi frequentano, quella esplorata dall’eroe di Omero, ma anche di Dante e di Saba. Essere il Direttore di "Odysseo"? Un onore che nemmeno in sogno avrei osato immaginare...

2 COMMENTI

  1. Che bello questo definirsi assenti ma responsabili in quanto “siamo”. L’essere implica, pur rimanendo inattivi, una operosità tra le righe del tempo che ci coinvolge e ci trascina contro la nostra volontà.
    Questo perdersi e ritrovarsi è il grave segno della precarietà dell’uomo a cui manca un vero appiglio di cui possa farne uso nei momenti in cui egli perde il passo con il tempo.

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