Esiste un modo di orientarsi quando ci si dedica alla filosofia, ancorché ad una “filosofia spicciola”? È in qualche modo anche questa la domanda a cui vuole rispondere l’ottima recensione di Pietro Lo Re, intitolata La stella polare del pensiero: Kant e il Panthesimustreit nello scritto “Che cosa significa orientarsi nel pensiero?”, la cui lettura si consiglia.
Tutti conosciamo i quattro punti cardinali per orientarci nello spazio. Tutti siamo dotati di orologi e cronometri di precisione per misurare il tempo. Ma con il pensiero? Come si fa con il pensiero e con il succedersi di filosofi e pensatori vari che, di generazione in generazione, sembrano voler scardinare i nostri modi di pensare?
Nel bel mezzo del Pantheismusstreit, ovvero della cosiddetta “disputa sul Panteismo”, è proprio per rispondere ad un interrogativo simile, che Kant, nel 1786, scrive Che cosa significa orientarsi nel pensiero. La “disputa”, nota anche come “controversia sul panteismo” riguardò in particolare i filosofi Friedrich Heinrich Jacobi e Moses Mendelssohn. Oggetto del contendere: stabilire se, nell’esercizio della teologia speculativa (quella del “Dio dei filosofi”), l’approdo finale della ragione dovesse necessariamente sfociare nel “panteismo ateo” di Baruch Spinoza oppure no. Nel primo caso, sostiene Jacobi, al fine di evitare un simile rischio, urgerebbe rendere la ragione “ancella” della fede, la sola che davvero ci può guidare nel buon porto della conoscenza di Dio. In caso contrario, ed è il parere di Mendelssohn, la ragione da sola potrebbe arrivare a Dio e occorrerebbe perciò lasciare che la fede si muova nell’ambito che le è proprio, senza pretendere di sminuirla al livello della ragione.
E Kant che dice? Cosa volete che dica colui che ha rispolverato il “noumeno” di Platone per rimarcare il fatto che ci sono limiti che la conoscenza umana non potrà mai valicare? Kant, da buon Salomone, non dà ragione a Jacobi, ma neppure a Mendelssohn. Al primo rimprovera il primato assoluto della fede, anticamera del fideismo, al secondo rimprovera il tentativo di rendere tra loro estranee ragione e fede.
Torniamo, dunque, alla domanda da cui siamo partiti: come orientarsi? A chi dare ragione? A Jacobi e a chi, come lui, esalta il ruolo della fede? O a Mendelssohn e, dunque, a chi sottolinea l’assoluta indipendenza della ragione da una fede che si vuole relegata nel campo delle reliquie sacre?
E poi, la vera domanda sottesa a questa nostra riflessione: ma c’è ancora qualcuno che si fa domande del genere, al giorno d’oggi?
Sembrerebbe di sì, è la risposta spontanea. Altrimenti, non si spiegherebbero il pullulare di movimenti, sette, mode new age, autori mistici o presunti tali che, in versione riveduta e corretta, propongono e ripropongono il verbo della spiritualità. Così come, probabilmente, non si spiegherebbero la continua ricerca di apparizioni, prodigi, miracoli e affini.
Kant è del parere che, quando la ragione aspira ad andare oltre il dato dell’esperienza, debba farlo in risposta ad un suo bisogno autentico, lo stesso che “postula” l’esistenza di Dio. Nei Prolegomeni precisa: “Noi dobbiamo dunque pensare un essere immateriale, un mondo intelligibile ed un Essere supremo fra tutti (puri noumeni), perché la ragione soltanto in questi, come cose in sé, trova completezza e appagamento”.
Problema risolto? Kant pensa di aver dimostrato l’esistenza di Dio con l’affermazione che noi ne nutriamo un bisogno autentico? Tutt’altro. Non è l’obiettivo del grande filosofo illuminista. Colui che ha definito il noumeno come il limite inattingibile della conoscenza umana, pone l’esistenza Dio come un orizzonte verso cui muovere solo per via della “ragion pratica” ovvero della coscienza morale. Per Kant, Dio è un postulato, un principio che, non di per sé evidente né dimostrato, tuttavia è assunto a fondamento dell’esercizio di ragione, perché al di fuori di esso nulla è intelligibile.
Tornando al Pantheismusstreit, ponendosi ad un punto di equidistanza tra le tesi di Jacobi e quelle di Mendelssohn, la posizione di Kant sembra rappresentare un invito per ciascuno di noi. Il suo è un appello, tanto più necessario in tempi di “società liquida” (Bauman docet!), a non rinunciare all’esercizio della ragione. Essa, infatti, per il filosofo di Königsberg, da una parte non conduce ad un “orientamento ateo” nel mondo, dall’altra ci libera dal pericolo di andare avanti “alla cieca”.
Se, infatti, i suoi limiti non ci consentono di possedere il trascendente, d’altro canto, la ragione svolge per noi la stessa funzione della stella polare: non viaggia con noi e, quando ci sono le nuvole, magari scompare. Nondimeno, rimane un ottimo punto di riferimento, a volte l’unico, per il nostro bisogno di orientamento.


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La mia fortuna? Il dono di tanto amore che, senza meriti, ricevo e, in minima parte, provo a restituire. Conscio del limite, certo della mia ignoranza, non sono mai in pace. Vivo tormentato da desideri, sempre e comunque: di imparare, di vedere, di sentire; di viaggiare, di leggere, di esperire. Di gustare. Di stringere. Di abbracciare. Un po’ come Odysseo, più invecchio e più ho sete e fame insaziabili, che mi spingono a correre, consapevole che c’è troppo da scoprire e troppo poco tempo per farlo. Il Tutto mi asseta. Amo la terra di Nessuno: quella che pochi frequentano, quella esplorata dall’eroe di Omero, ma anche di Dante e di Saba. Essere il Direttore di "Odysseo"? Un onore che nemmeno in sogno avrei osato immaginare...

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