Edna O’Brian: “Il linguaggio, che sia letteratura, poesia o teatro è la cosa più vicina a Dio che conosca”

Questo pezzo inizia con i sensi di colpa del cronista che avrebbe dovuto scrivere del Festivaletteratura di Mantova all’indomani della sua ventesima edizione terminata lo scorso 11 settembre. Eppure, mentre pensa a quale scusa accampare nei confronti del direttore del giornale per giustificare un simile ritardo, egli si rende conto di quanto il tempo trascorso sia servito a far sedimentare le emozioni di quei cinque giorni di festival che, forse, a caldo avrebbero falsato il giudizio di chi scrive un resoconto da appassionato troppo coinvolto da ciò che gli accade intorno.

Che poi scrivere è anche questo: ripescare dal pozzo della memoria la meraviglia di un ricordo e sorprendersi nello scoprire che le cose sono andate in maniera parzialmente diversa da come si ricordava.

Ecco, allora, come prima cosa bisogna parlare delle centinaia di volontari che reggono il festival e che ne incarnano lo spirito, riuscendo a restituire al pubblico una manifestazione partecipata e identitaria, sentita dall’intera comunità Mantovana.

Sono il corpo e l’anima di Festivaletteratura e a loro è dedicata la festa finale, quella della domenica sera, dove, tra pentoloni di risotto alla mantovana, cori da stadio per i volontari della logistica e la proiezione del video-riassunto del festival, vengono annunciate le date dell’edizione successiva. Senza tutto l’entusiasmo, la competenza e il lavoro dei volontari il Festivaletteratura non esisterebbe ed è da qui che dovrebbe partire ogni analisi o ragionamento.

Partito da un’iniziativa “dal basso” di semplici cittadini ispirandosi a un modello consolidato in altri paesi europei, in particolare dell’area anglosassone, dal 1997 Festivaletteratura è uno degli appuntamenti culturali italiani più attesi dell’anno, una cinque giorni di incontri con autori, reading, percorsi guidati, spettacoli, concerti con artisti provenienti da tutto il mondo, che si ritrovano a Mantova per vivere in un’indimenticabile atmosfera di festa.

Al Festival partecipano narratori e poeti di fama internazionale, le voci più interessanti delle letterature emergenti, e ancora saggisti, musicisti, artisti, scienziati, secondo un’accezione ampia e curiosa della letteratura, che non si nega alla conoscenza di territori e linguaggi lontani dai canoni tradizionali. Un’attenzione particolare è rivolta ai bambini e agli adolescenti con numerosi incontri, spettacoli e laboratori che sono pensati solo per i ragazzi o per adulti e ragazzi insieme. Il tutto a Mantova, una perla del rinascimento riconosciuta dall’Unesco patrimonio mondiale dell’umanità, dove la dimensione raccolta della città avvicina autori e lettori.

Sono oltre quattrocento gli appuntamenti festivalieri e la tentazione di incastrare più appuntamenti possibili è forte quanto ingannatrice. La corsa nuoce gravemente al godimento. L’atmosfera spesso va privilegiata sul contenuto, il rischio frullato di informazioni è dietro l’angolo.

Possono, dunque, rimanere fuori dalle scelte nomi eccellenti, o presunti tali, come Alessandro Baricco, Stefano Benni, Daniel Pennac, Erri De Luca, senza che questi “tagli” incidano in alcun modo sulla qualità delle scelte.

Dunque, la parte difficile per il cronista inizia adesso, quando c’è da raccontare ciò che si è visto e tentare di restituire al paziente lettore le sensazioni provate. Bisogna trovare una via alternativa perché l’esperienza è irripetibile e i contenuti troppi e troppo vasti per stare tutti in un solo articolo. Eppure, rischiando di fare una scelta all’apparenza furbesca proviamo ad orientarci nel mare magnum degli incontri ripercorrendo i percorsi che per cinque giorni sono stati battuti tra piazza del Sordello, cuore pulsante del festival, il Palazzo Ducale e le sue decine di corti, Piazza delle Erbe e la Loggia del Grano.

Mantova è innanzitutto il palcoscenico su cui debutta il Repertorio dei Pazzi della Città di Andria, l’emozione è tanta e le copie che si esauriscono sono motivo di orgoglio. Ma l’equidistanza del cronista non può vacillare in queste righe dove è forte il desiderio di dilungarsi su un libro tanto amato ma di cui spetta ad altri scriverne.

Meritano qualche riga in più, tra tutti, Julian Barnes, Alan Pauls, Cees Noteboom e Antoine Volondine. Il primo racconta la vera storia di Dmtrij Sostakovic, uno dei compositori più raffinati del XX secolo, che, rifiutandosi di prendere la via dell’esilio, dovette fare i conti per molti anni con i gusti musicali di Stalin e per tutta la vita con la macchina opprimente del potere sovietico. In Il rumore del tempo Barnes fa di questa indimenticabile storia una meditazione dull’arte, sul suo potere e sui suoi limiti.

Alan Pauls, uno dei più influenti scrittori argentini, parla invece di Jorge Luis Borges (definito da Roberto Bolano il più grande scrittore sudamericano) spiegando come l’autore di Finzioni sia stato un vero e proprio maestro di lettura più che di scrittura, con l’introduzione di vere e proprie procedure di lettura basate sull’attenzione ai dettagli più marginali e al piacere di stabilire connessioni tra elementi testuali apparentemente lontani tra loro. Per Borges l’idea centrale è che ogni cosa può essere usata in letteratura, mai in un unico modo, e che la “cultura” non sia un totem da idolatrare ma materia prima da forgiare. Stessa sorte tocca ai classici che non sono tali per caratteristiche intrinseche ma per considerazioni di carattere collettivo che possono, dunque, modificarsi nel tempo e far perdere al cosiddetto classico lo status aquisito. La lettura è e rimane un gesto fondativo.

Ancora, per Cees Noteboom occorre partire da questo ricordo: “La trasmigrazione delle anime non avviene dopo, ma durante la vita”. In queste parole scritte in Autoritratto di un altro c’è la dichiarazione di poetica di un autore che, nel bisogno di dare sempre nuove forme al racconto del suo imperterrito viaggiare, ha trovato in poeti e pensatori le risposte necessarie. Da questa familiarità nasce il personale pellegrinaggio compiuto da Nooteboom lungo più di trent’anni “per essere in prossimità delle parole già pronunciate, per ascoltare di nuovo quelle parole nel silenzio della morte”. Nella visita alle tombe di Borges, Canetti, Eliot, Melville, Valéry, Wittgenstein e di molti altri scrittori, l’autore di Tumbas ci restituisce una biblioteca universale, in cui risuonano le voci che lo hanno accompagnato, sostenuto e divertito per tutta la vita, narrazioni del mondo che provano a sopravvivere nella letteratura.

In ultimo Antoine Volondine. Ha pubblicato oltre quaranta libri con vari pseudonimi; ha fondato una propria corrente letteraria, il “post-esotismo anarco fantastico”; quello dei suoi romanzi è un mondo in cui tempo e spazio sono dimensioni liquide che si combinano restituendo comunque un universo reale. Ogni sua nuova uscita crea un’attesa spasmodica che sta contagiando anche i lettori italiani, che possono ora leggere Terminus radioso, un romanzo ironico, folle e geniale, considerato, ad oggi, il suo capolavoro.

È tempo di concludere e il cronista si rende conto di aver fatto un resoconto parziale e per larghi tratti approssimativo di quanto accaduto durante il festival, giustificato solo in parte dai limiti dell’articolo, ma spera che al lettore sia giunta quantomeno l’immensa portata letteraria di questo tipo di appuntamento. Per dirla con le parole di Edna O’Brian che chiudono la ventesima edizione del Festivaletteratura: “Il linguaggio, che sia letteratura, poesia o teatro è la cosa più vicina a Dio che conosca e cerco di rimanervi attaccata il più possibile. Non può fare tutto, ma è la cosa più intima, più privata, più individuale che ritengo sia necessaria per andare avanti”.