
Ho cantato “Bella ciao”!
“Sono schiava e sovrana, sono una figlia di… figlia di… Loredana”: così canta in “Figlia di” la Bertè, e con lei ciascun cittadino onesto, nonché arrabbiato contro le contaminazioni che sporcano la civiltà meritocratica, contaminazioni da parte di forze figlie di qualche divinità maggiore che uccidono ed alienano le speranze di vita – quando non le vite stesse – di chi predestinazioni di comodo non ha.
Schiava e sovrana, schiacciata ed esaltata, la psico-individualità sociale ha la necessità di farsi fluida, in mezzo al mare in burrasca dei tempi duri per le occupazioni e le condizioni epidemiche, nel Belpaese, già invero spento da tempo sul piano della crescita e della meritocrazia. Schiava e sovrana, l’essenza di ogni paradosso in cui ogni io individuale galleggia, coerente a se stesso in società, al di là dello scarto esistente tra realtà effettiva e pareri mobili emessi dagli “altri”. D’altronde ogni io è altro rispetto all’io di ciascun altro.
E qui non occorre scomodare le complesse filosofie relativiste dalle loro torri eburnee, possiamo invece ricordare il più accessibile e sempre caro Luigi Pirandello.
Il Belpaese ha consegnato, in questo 2021, una seconda annata di Festa nonché ricorrenza di Liberazione in smart-party, ai tempi ad oltranza del Covid-19.
Tra i tanti autori degni d’esser ricordati nella causa antifascista, oltre al sempre vivo Piero Gobetti, è l’altro Piero, il Calamandrei. Quest’ultimo, dei suoi meriti insigni, rese celebre il proprio io: dalla lotta antifascista contro la schiavitù morale del popolo italiano alla sovranità popolare nella democrazia rappresentativa. Egli ha più volte riflettuto sulla repubblicanità.
Il carattere repubblicano, idoneo a rendere gli affari della cosa pubblica accessibili ai cittadini del popolo italiano, doveva divenire una forma “definitiva per l’Italia”, secondo il Calamandrei.
Sulla definitività della forma repubblicana negli intenti politologico-costituzionali del Calamandrei abbiamo chiara traccia nel suo magistrale intervento in Assemblea costituente, nella seduta del 4 marzo 1947.
Secondo il grande giurista e politico antifascista, d’altronde, risultava “tradizionale nelle Costituzioni nate alla fine del secolo XVIII che i diritti di libertà, i diritti dell’uomo e del cittadino, venissero affermati come una realtà preesistente alla stessa Costituzione, come esigenze basate sul diritto naturale, diritti cioè, che nemmeno la Costituzione poteva negare, diritti che nessuna volontà umana, neanche la maggioranza e neanche l’umanità dei consociati poteva sopprimere, perché si ritenevano derivanti da una ragione profonda che è inerente alla natura spirituale dell’uomo” (Piero Calamandrei).
L’elemento giusnaturalistico, invero, potrebbe essere salutato come agganciabile alle suggestioni pregnanti e superghe, necessitate, del momento in cui il Calamandrei ha operato, all’indomani della seconda guerra mondiale, della caduta del fascismo, dell’avvento della forma repubblicana, all’indomani degli orrori indescrivibili del Grande Olocausto. Il carattere giusnaturalistico a cui faceva riferimento il Calamandrei può essere oggetto ed entità sempre attiva di approvazione morale, ma non di una teorizzazione compulsiva, sistemica e generalizzabile. La critica ai giusnaturalismi, così, non può colpire con gli strumenti della tecnica della confutazione filosofica questa specifica citazione – sopra riportata – del Calamandrei. Sarebbe come confondere i piani, passando dalla storia dei princìpi costituzionali nella loro elaborazione necessitata, all’indomani della grande tragedia di metà Novecento, ad una astratta ricerca teoretica.
Ciò che intendeva dire il Calamandrei è che in quel particolare momento storico occorreva rifarsi alla humanitas della ragione, onde evitare di cadere in ultronei legalismi rifascistizzanti o comunque autoritaristici ed illiberali. Quel carattere ‘giusnaturalistico’ diverrebbe quindi intendibile ed accoglibile da tutti – giuspositivisti e giusnaturalisti – se letto come pare calzante leggerlo, all’interno di quel contesto costituente in cui esso è stato elaborato e manifestato, ossia in senso pragmatico e non astrattamente filosofico o sistemico.
I diritti basilari della costituzionalità repubblicana italiana, in breve, possono riassumersi nella chiave di lettura del ‘non accada mai più l’orrore del Novecento’, che ha snaturato l’agire pubblico (nella cosa pubblica) dal proprio senso di umanità. Il senso profondo di umanità nelle alte gestioni della cosa pubblica deve farsi naturalmente un postulato di quei princìpi su cui si fonda il nostro stare insieme in società: immedesimazione negli altri esseri umani, all’insegna del non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te.
In questo spirito di fratellanza, solidarietà e libertà morale nonché materiale dobbiamo continuare a far evolvere la nostra costituzionalità, tra riformismo razionalistico e rispetto delle diverse posizioni politiche, anche di quelle che con più radicalità dissacrano gli altari manieristici della retorica antifascista di bandiera. Quest’ultima vorrebbe continuare a ridurre e piegare la Liberazione a festa per lo più rossa.
Nella lotta di liberazione dal nazifascismo ci fu chi si voltò dall’altra parte, con connivenza verso la dittatura quasi-totalitaria, ma a non voltarsi e morire non furono soltanto i rossi. Ricordiamoci dei tantissimi liberali, repubblicani, preti cattolici e non solo, che sono morti per la libertà. Ricordiamoci di quelle tante ragazze e di quei tanti ragazzi privi di adesioni politiche specifiche, tutte e tutti morti per la causa comune della libertà. La libertà in realtà è la più grande scuola politica nella vita.
Così la nostra bandiera italiana, prima “schiava” del fascismo, si è fatta “sovrana”, “figlia di” una libertà pulsante, condivisa, mai settaria, mai profana. E in questa Festa di Liberazione, come si è capito, ho ascoltato “Bella ciao” senza retoriche, e ho ballato sulle parole cantate della Bertè.