«Dio ha voluto che lo sguardo dell’uomo fosse l’unica cosa che non può nascondere»

(Alexandre Dumas – Padre)

Era di corsa: il pomeriggio precedente era crollato in un sonno lungo e profondissimo, che però gli aveva regalato solo incubi. Si era svegliato con il tipico mal di testa di chi dorme fuori orario, frastornato, rallentato: un bradipo nano. Prima di coricarsi, la sera, aveva addirittura temuto di non riuscire subito ad addormentarsi ed invece, di nuovo, era crollato nel de profundis; ancora un incubo. Questa volta decisamente peggiore, con una caratteristica mai capitata prima. Nonostante nel mezzo del delirio si fosse svegliato, non aveva tirato un sospiro di sollievo perché tutto quello che aveva sognato era talmente vero che gli era rimasto addosso. Vedere i muri della sua camera da letto, riconoscere i contorni della finestra, sentire il respiro del suo cane non gli aveva impedito di ricadere addormentato e ricominciare l’incubo lì dove lo aveva lasciato.

Dunque, ora, con alle spalle mezza giornata di sonno disturbato, era di corsa. Faceva un caldo asfissiante, aveva commesso l’errore di uscire in jeans: sentiva le gambe prendere fuoco e si sarebbe staccato di dosso anche la pelle. Solo che non poteva.

Era di corsa. Continuava a fare avanti e indietro nei corridoi del posto in cui lavorava: non riusciva a star fermo un quarto d’ora di fila nello stesso luogo, infatti, continuavano a chiamarlo a destra e a manca, sembrava che quella mattina l’intero globo terrestre non potesse fare a meno dei suoi interventi.

E intanto il caldo aveva liquefatto anche l’angoscia di quegli incubi che, per carità, non erano realtà, ma si erano portati dietro un’intera Treccani a novantasei volumi di bestemmie contro Freud. Tutto finiva nell’intolleranza per i suoi jeans.

Quando poté lasciare le vesti della variabile impazzita in un palazzo assolato a ridosso di uno scorcio di madre natura da fare invidia ai migliori esperti di plein air, finì dritto con il sedere sui sedili dell’auto, lasciata preventivamente aperta per sconfiggere almeno parzialmente la filiale dell’inferno a settantagradiallombratuttoattaccato.

Di lì a poco avrebbe dovuto ascoltare quindici persone, vedere un amico che gli aveva chiesto un favore ed a cui non sapeva dire di no, ritagliarsi il tempo per dormire perché ne aveva bisogno, sebbene temesse di ricascare in qualche scherzo del subconscio e, mentre si organizzava mentalmente, gli caddero le chiavi.

Qualcuno di sconosciuto si precipitò a raccoglierle e, nell’atto di ringraziare, lui incrociò per un istante il piglio di quell’essere umano che, nonostante non fosse persona nota, in un istante gli fece ricordare il medesimo sguardo di qualche anno prima: un ricordo atavico, occhi che incrociò altrettanto fugacemente, in nettissimo contrasto con il resto dell’umano corpo che li vestiva e che al primissimo istante lo inchiodarono all’idea, mai più cambiata, di aver visto l’archetipo del buono dietro una facciata lasciata un po’ a sé stessa. Una bontà fulminante, nascosta dietro cumuli di chissà quali macerie. Fu una scossa. Non ebbe mai la fortuna di poter dimostrare le ragioni di quella sensazione che, in realtà, fu assoluta certezza. Di fatto, quando gli capitava di ricordarlo, tutto di quell’incontro era cancellato fatta eccezione per quella netta percezione: la profondità di qualcosa che c’era, era inequivocabile, decisa, risoluta e chiara, ma davvero ben celata.

Non seguì nulla se non un saluto all’epoca, non sarebbe seguito nulla se non un ringraziamento quel giorno, ma su una cosa poté riflettere: poteva passare il tempo, potevano susseguirsi le stagioni, cambiare intere esistenze, ma certi sguardi, quelli no. Non si potevano cancellare. Un po’ come certe persone, quelle indimenticabili, per cui non c’è cura (glielo aveva detto Bukowski questo, e lui aveva avuto modo di dovergli credere).

Adesso, però, inutile cercare di metterci il pensiero, era di corsa: entrò in auto, aria condizionata tirata al massimo, fece girare la chiave nel cruscotto, inserì la retromarcia dopo aver messo la cintura di sicurezza e, voltato di spalle con la testa rivolta verso destra, inquadrando attentamente ciò che gli si stagliava dietro, (non ultimo un torrente ora quasi secco, che presto sarebbe tornato a far temere le sue esondazioni), sentì forte una mancanza: quella del disordine colorato, che nella vita aveva avuto.

Esatto, realizzò, era la mancanza fortissima di quella stanza in cui, un tempo, sembrava esserci un buco nero blu e che l’arcobaleno ci avesse vomitato sopra (Thomas, 9 anni).


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Sono una frase, un verso, più raramente una cifra, che letta al contrario mantiene inalterato il suo significato. Un palindromo. Un’acca, quella che fondamentalmente è muta, si fa i fatti suoi, ma ha questa strana caratteristica di cambiare il suono alle parole; il fatto che ci sia o meno, a volte fa la differenza e quindi bisogna imparare ad usarla. Mi presento: Myriam Acca Massarelli, laureata in scienze religiose, insegnante di religione cattolica, pugliese trapiantata da pochissimo nel più profondo nord, quello da cui anche Aosta è distante, ma verso sud. In cammino, alla ricerca, non sempre serenamente, più spesso ardentemente. Assetata, ogni tanto in sosta, osservatrice deformata, incapace di dare nulla per scontato, intollerante alle regole, da sempre esausta delle formule. Non possiedo verità, non dico bugie ed ho un’idea di fondo: nonostante tutto, sempre, può valerne la pena. Ed in quel percorso, in cui il viaggio vale un milione di volte più della meta ed in cui il traguardo non è mai un luogo, talvolta, ho imparato, conviene fidarsi ed affidarsi.