“Àlzati, rivestiti di luce, perché viene la tua luce”

(Is 60,1)

 La liturgia della Parola della Solennità dell’Epifania del Signore, che la Chiesa celebra il 6 di gennaio, è ricca di spunti per la riflessione.

Mi piace sottolineare che questa solennità può rappresentare la festa delle diverse culture che si interrogano dinnanzi al mistero dell’Incarnazione di Cristo sul senso e su Dio e la festa della luce di Cristo che illumina i popoli.

L’Epifania è la manifestazione dell’identità di Gesù alle genti, a quelli che non erano ebrei, e dà alla festa un particolare significato: Gesù è nato per tutti, e tutti possono cercarlo e andare a Lui.

L’Epifania, inoltre, rappresenta il collegamento tra Incarnazione e Redenzione, tra il Natale e la Pasqua. Il bambino, avvolto in fasce nella mangiatoia, è prefigurazione del Cristo avvolto nelle bende nel sepolcro.

Alla nascita e alla morte di Gesù risuona per lui lo stesso titolo, “Re dei giudei”. Alla nascita lo dicono i magi e lo ripetono gli scribi ed Erode; alla morte lo fa scrivere Pilato su un cartello.

Alla nascita e sotto la croce, allora, vi è la stessa rivelazione: l’umanità è una nella ricerca di Dio e nel ripudio di Dio, o meglio nel credere al bene con speranza oppure nel non credere al bene, preferendo la violenza, il male.

Nei giorni del Re bambino, del Re-al-contrario – come ci ricorda il Salmo 71 – c’è una speranza: fiorirà il giusto e abbonderà la pace, quella pace che rimarrà “finché non spegnerà la luna”.

I Re Magi, poi, rappresentano gli uomini che cercano, che sono in ricerca della verità che appaga, che salva, guidati da una luce, da una “stella grandissima che – come dice l’apocrifo Protovangelo di Giacomo del III secolo – splendeva tra tutte le altre stelle e le oscurava tanto che le stelle non apparivano più”.

Della stella si interessa anche un altro apocrifo, L’infanzia del Salvatore: “Ecco un’enorme stella che splendeva sulla grotta dalla sera al mattino; una stella così grande non era mai stata vista dall’inizio del mondo”. Ma, nel prosieguo del racconto, l’autore in modo più raffinato si preoccupa di ricordarci che quella stella era in realtà “la parola di Dio ineffabile”.

Tutti gli umani di ogni tempo e cultura hanno in comune con loro soprattutto la ricerca del bene, anche se poi contraddicono questo loro desiderio così impegnativo. In ogni essere umano c’è un anelito al bene, alla vita piena, alla pace, e questo fuoco che abita gli umani li spinge a cercare, a mettersi in cammino, a dichiarare per loro insufficiente la terra che abitano, l’orizzonte consueto. Per questo cammino gli umani cercano e trovano come segnali ciò che possono: il cielo, la terra, il mare e anche le creature animate e inanimate con le quali sanno comunicare.

Come convertiti, mutati nella loro mente e nel loro cuore, i magi poi trovano e riconoscono la vera regalità nell’anti-regalità, la regalità potente e universale nella debolezza umana, in un infante incapace di parlare e di essere eloquente con la parola.

Quel bambino che è nato a Betlemme è lo stesso che, quando sarà grande, dirà: “non sono venuto per essere servito, ma per servire”. Egli è Re-servo che è venuto a lavare i piedi degli uomini e non a mettere gli uomini ai propri piedi.

Quei magi, convertiti alla vista del bambino in quella povera famiglia, in quella greppia, adorano, si prostrano e gli offrono in dono oro, incenso e mirra, prodotti preziosi dell’oriente, elaborati dalla cultura delle genti.

Quanti uomini e quante donne, dall’oriente e dall’occidente, dal nord e dal sud, come questi magi cercano il bene, si sentono viandanti, in cammino, si esercitano a riconoscere la salvezza come umanizzazione e si impegnano perché l’umano sia sempre più umano. Lo sappiano o meno, sono persone alle quali ogni bambino che nasce, ogni umano che viene al mondo deve apparire con la dignità di un re; come un fratello o una sorella che attende da noi il nostro oro (ciò che abbiamo), il nostro incenso (il profumo sprigionato dalla nostra presenza), la nostra mirra (ciò che sappiamo sacrificare di noi stessi, spendendo la vita per l’altro).

In quel lungo pellegrinaggio, soprattutto della mente e del cuore, i magi hanno guardato alla stella. È per questo che la tradizione cristiana del Natale si snoda alla luce di questa stella, ma non tanto per una sua precisa collocazione nei sistemi stellari, quanto piuttosto per il suo valore di “luce”, simbolo classico di Dio.

Quando a Roma per il natale del dio Sole a dicembre il popolino si prostrava verso il sole che sorgeva all’alba, la Chiesa si riuniva per celebrare la manifestazione del vero sole, Cristo.

“Rallegriamoci anche noi, fratelli – esortava sant’Agostino – e lasciamo pure che i pagani esultino: poiché questo giorno per noi è santificato non dal sole visibile bensì dal suo invisibile Creatore”.

La luce del Messia si riflette e illumina, guida, trasforma a immagine della sua gloria, penetra di immortalità. Infatti, se il più antico mosaico cristiano, quello del mausoleo romano dei Giulii (III secolo), rappresenta il Cristo-sole sfolgorante sul suo carro trionfale, è altrettanto significativo che la tradizione paleocristiana e medievale abbia rappresentato la Chiesa come la luna che riverbera la luce del Cristo.

La processione dei Magi, che ha come approdo l’illuminazione della fede (“Videro il Bambino con Maria sua madre e, prostratisi, lo adorarono”, annota Matteo), diventa così un emblema che riassume in sé la speranza di un incontro di salvezza al termine del lungo cammino della ricerca.

L’Epifania divina che Luca destinava agli ultimi, i pastori, Matteo la riserva agli stranieri, i diversi rispetto al popolo dell’elezione.

I Magi diventano, come si diceva, l’espressione della ricerca umana che ha, però, all’origine una decisione iniziale di Dio che entra per primo nelle strade del mondo, anzi, nella “carne” stessa dell’umanità.

Nel suo celebre L’uomo senza qualità, Robert Musil sottolineava che “non è vero che il ricercatore insegua la verità. È la verità che insegue il ricercatore”.

Per chi scruta l’orizzonte sempre sorge una stella, sempre c’è un oriente. In ultima analisi, una speranza.

È curioso sapere che il termine indonesiano per significare speranza suona: “guardare attraverso l’orizzonte”.


Fontehttps://flic.kr/p/QFJeCc
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Nicola Montereale è nato a Trani (BA) il 1 Febbraio 1994 ed è residente ad Andria. Nel 2013 ha conseguito la maturità classica presso Liceo Classico “Carlo Troia” di Andria e nel 2018 il Baccalaureato in Sacra Teologia presso l’Istituto Teologico “Regina Apuliae” di Molfetta. Attualmente è cultore della materia teologica presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore (Milano) e docente IRC presso il Liceo Scientifico e Classico “A.F. Formiggini” di Sassuolo (Mo). Ha scritto diversi articoli e contributi, tra questi la sua pubblicazione: Divinità nella storia, Dio nella vita. Attraversiamo insieme il deserto…là dove la parola muore, Vertigo Edizioni, Roma 2014. Inoltre, è autore di un saggio di ricerca, pubblicato nel 2013 e intitolato “Divinità nella Storia, Dio nella Vita”.