“Tutto ciò che è verità per un sistema ipercomplesso è un errore per un sistema a bassa complessità”

In questi ultimi anni da più parti si sta sempre  prendendo coscienza  della dimensione planetaria dei singoli problemi, umani e non umani, anche perché sta emergendo in maniera significativa il fatto evidente della loro stretta interdipendenza e proprio grazie ai diversi tentativi di far  venir fuori, da parte dai più avvertiti filoni di pensiero filosofico-scientifico, le specifiche  ‘mille ragioni’ di fondo per usare una profetica intuizione di  Leonardo da Vinci; e a tale coscienza socio-epistemica  ha dato un contributo essenziale l’intera riflessione di Edgar Morin, che sin dai primi anni ’50 ha concentrato la sua attenzione sul problema dell’uomo e della sua natura, a partire da alcuni scritti come L’Homme et la mort del 1950, La Vie du sujet e Introduction à una politique de l’homme dei primi anni ’60, dove già venivano delineati alcuni punti centrali del percorso successivo come ad esempio l’idea di ‘antropo-cosmologia’ e la necessità di una ‘bio-politica’ più in grado di fare i conti con la dimensione globale assunta da ogni singolo fenomeno.

Conclude tale prima tappa del suo pensiero e nello stesso tempo ne apre un’altra l’opera scritta nel 1973, Il paradigma perduto. Che cos’è natura umana? (Milano, Mimesis 2020) per dare voce  ad un pensiero non più chiuso ma aperto alle ‘verità polifoniche della complessità’ in grado di ‘considerare il mondo, la vita, l’uomo, la conoscenza, l’azione come dei sistemi aperti’;  ora finalmente   apparsa  in traduzione italiana, permette di far conoscere quello che potremmo definire il ‘primo’ Morin, meno conosciuto rispetto al  secondo che prese piede, com’è più noto,   con la pubblicazione di Il metodo , opera  monumentale iniziata nel 1977 e portata a termine nel 2004 in sei volumi. Tale opera  del 1973, che fa dunque da cerniera fra le due tappe del suo non comune percorso, è un  vero e proprio classico del pensiero complesso sino ad esserne un manifesto, come del resto avvenne nel 1928 con la pubblicazione del Manifesto di filosofia scientifica da parte delle figure più rappresentative del movimento neo-empirista sino a costituire così  uno dei capitoli più importanti della filosofia del ‘900, la filosofia della scienza. Non è dunque un caso se essa  è apparsa  in una significativa collana ‘La sfida della complessità’, diretta da Mauro Ceruti che nel 1985 curò insieme a Gianluca Bocchi, con contributi di vari studiosi  italiani e stranieri, un  volume con lo stesso titolo, volume diventato ormai un punto di riferimento imprescindibile  del pensiero filosofico-scientifico a livello mondiale in tale ambito di ricerca.

Pur scritta nel 1973 e prima di altre che hanno avuto molto più fortuna critica, tale opera di Morin conserva ancora tutto il suo valore strategico  nel tracciare quelle che poi  chiamerà ‘le vie della complessità’ oltre a fare emergere la  forte tempra teoretica  di un umile navigatore nelle acque incerte  della conoscenza, costretto come viene detto nelle pagine introduttive a cambiare  spesso rotta con ‘la rimessa in questione dei fondamenti stessi del mio pensiero’ e con le conseguenti ‘riconversioni’ dovute ai cambiamenti strutturali in atto nei diversi ambiti scientifici. L’obiettivo di fondo è quello di superare ‘la conoscenza dell’umano sempre frammentaria, dispersa in discipline chiuse’ e di capire più in profondità ‘la realtà umana’   come una ‘trinità complessa: individuo/specie/società’ con collegare ‘l’avventura umana nell’avventura cosmica’. Vengono così gettate le basi del ‘metodo del pensiero complesso’ che nasce quindi dal bisogno di collegare ciò che ‘è stato artificiosamente separato’ e ‘mutilato’, di operare quella che Morin chiama una ‘relianza’, cioè una alleanza che recuperi un paradigma  basato sulla stretta unione tra uomo e natura e suffragato dall’insieme delle conoscenze scientifiche che nel corso del tempo ne  hanno ampliato gli orizzonti di fondo.

Di fronte ad un modello di ‘scienza chiusa’ dal ‘biologismo all’antropologismo’  con i suoi inevitabili ‘ismi’,  come li chiamerà successivamente il neurobiologo Gerard Edelman, e con a base l’idea che ‘il mondo fosse costituito di tre strati sovrapposti non comunicanti’ come ‘Uomo-Cultura, Vita-Natura, Fisica-Chimica’, bisogna lavorare alla costituzione  di quella che Morin chiama in originale italiano Scienza nuova facendo leva sulle ‘brecce’  aperte nella seconda metà del ‘900 nei ‘regni’  precedentemente chiusi dove ‘avvengono i primi collegamenti e fatti teorici nuovi’, come  nella rivoluzione biologica di Watson e Crick e con le diverse ‘rivelazioni’ etologica e bio-sociologica. I vari capitoli centrali analizzano i processi di ominidizzazione e quella che viene chiamata l’antroposociogenesi, processi che permettono di andare al di là della riduzione dell’uomo a soli homo faber e homo sapiens in quanto nella sua storia l’homo ha prodotto per costituirsi come tale magia, mito e delirio sino a  conformarsi come dotato di ragione e sragione, cioè sapiens-demens, dove giocano un ruolo non secondario  ‘l’errore’  e  ‘il disordine’: pertanto è da chiedersi ‘se il progresso della complessità, dell’invenzione, dell’intelligenza, della società siano avvenuti malgrado, con oppure a causa del disordine, dell’errore, del fantasma. E noi risponderemo contemporaneamente a causa di, con e malgrado’. Non si può capire, pertanto l’homo sapiens e la  ‘ipercomplessità’ che lo caratterizza insieme con il  suo maggiore ‘fiore cioè la coscienza’, grazie al livello raggiunto dal suo ‘cervello biunico, triunico e polifonico’, senza introdurre il principio ‘dell’unità complessa di sapiens-demens’ con la sua specifica ‘dialettica’ dove giocano un ruolo attivo anche la ‘hybris, l’instabilità pulsionale, l’iperaffettività e l’estasi’ nelle sue diverse articolazioni. In tal modo questi aspetti sono ritenuti ‘centrali’ per capire la natura umana, dove ordine e disordine, verità ed errore, ragione e follia ‘sono antagonisti e complementari nell’autorganizzazione nel divenire antropologico, nell’avventura umana’. Per capirne la giusta dimensione e la estrema varietà di questi fenomeni non basta muoversi ‘da un principio semplice di unità’, ma partire da una ‘unità di un sistema ipercomplesso’, necessario per Morin per creare le basi di una stessa ‘società ipercomplessa che non ha ancora visto la luce, ma il cui bisogno si manifesta’ e che potrebbe costituire la premessa di una ‘quarta nascita dell’umanità’ in grado di far fronte più adeguatamente alle sfide dell’era planetaria.

Alla luce di tali obiettivi si ritiene necessario fornire la basi di una Scienza nuova, dotata di un diverso e più articolato paradigma che richiede ‘una ristrutturazione della configurazione complessiva del sapere’; ed invece di discipline settoriali che  ‘mutilano con l’accetta l’oggetto complesso’, sono necessari percorsi di ricerca che ne interroghino le ‘interrelazioni, le interazioni, le interferenze, le complementarità’, come del resto diceva negli stessi anni un’altra figura francese come Michel Serres (1930-2019); frutto della sua ‘riconversione’, tale progetto epistemologico per Morin, come fu quello del 1928, mira ‘a far nascere una nuova concezione della scienza, che contesti e sconvolga, non solo le frontiere stabilite, ma le pietre angolari dei paradigmi’. La Scienza nuova, la nuova scienza dell’uomo, pertanto, non è ‘un edificio da completare’ ma una ‘teoria da costruire’ avendo come punto di riferimento il fatto ormai assodato che ‘ogni teoria, compresa quella scientifica, non può esaurire il reale, rinchiudendo l’oggetto nei suoi paradigmi’, in quanto come diceva già negli anni ’30 Gaston Bachelard, considerato da Morin uno dei pochi filosofi della scienza ad aver fatto i conti col pensiero complesso per i suoi studi sulla microfisica, è  strutturalmente aperta, approchée e incompleta.

Ma la forza teoretica  del pensiero di Morin, già  evidente in quest’opera del 1973, sta nel suo avvertimento epistemico ancora attualissimo  per ogni navigatore nelle acque rugose  della conoscenza e non solo, e condensato nella frase: ‘Tutto ciò che è verità per un sistema ipercomplesso è un errore per un sistema a bassa complessità’, mentre ‘tutto ciò che è verità per un sistema a bassa complessità fondato sulla costrizione è un errore fatale per un sistema ipercomplesso’. Il pensiero filosofico-scientifico ma anche ogni ambito dell’umano a partire dalle scelte in campo sociale e politico, chiamato da Morin ‘antropopolitica’, possono essere valutati alla luce di queste indicazioni per la loro fecondità euristica in ogni campo di applicazione.


FontePhotocredits: Roberto Strafella
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Mario Castellana, già docente di Filosofia della scienza presso l’Università del Salento e di Introduzione generale alla filosofia presso la Facoltà Teologica Pugliese di Bari, è da anni impegnato nel valorizzare la dimensione culturale del pensiero scientifico attraverso l’analisi di alcune figure della filosofia della scienza francese ed italiana del ‘900. Oltre ad essere autore di diverse monografie e di diversi saggi su tali figure, ha allargato i suoi interessi ai rapporti fra scienza e fede, scienza ed etica, scienza e democrazia, al ruolo di alcune figure femminili nel pensiero contemporaneo come Simone Weil e Hélène Metzger. Collaboratore della storica rivista francese "Revue de synthèse", è attualmente direttore scientifico di "Idee", rivista di filosofia e scienze dell’uomo nonché direttore della Collana Internazionale "Pensée des sciences", Pensa Multimedia, Lecce; come nello spirito di "Odysseo" è un umile navigatore nelle acque sempre più insicure della conoscenza.