La vita non è un museo…

“Prima di partire per un lungo viaggio, devi portare con te la voglia di non tornare più”: così cantava Irene Grandi diversi anni fa. E in questo tempo di partenze (e, si spera, ripartenze) la frase mi sembra particolarmente appropriata.

Certo, sono parole forti, quasi violente: chiedono che la tua unica, reale casa sia la strada e che il tuo equilibrio impari ad avvalersi del cambiamento; chiedono di rivedere le stigmatizzazioni di certi status, secondo le quali “alcuni” sono chiamati, per particolare vocazione, a “partire, lasciare tutto e andare”. Direi che l’uomo, tutto l’uomo e tutti gli uomini sono fatti per questo. Direi che ogni persona desiderosa di crescere e dare il meglio di sé, prima o poi deve partire. Vicino o lontano, pure dietro casa, ma deve “dividere in parti”, come la parola suggerisce. Cosa? Roccaforti di certezze, pretese, comodità: dividere per scandagliare ciò che davvero occorre tenere e coltivare. Il troppo e il tutto, si sa, sono deleteri, pesanti fino a impedire il movimento.

E a tal proposito mi veniva in mente un’altra bella parola, che racconta le partenze coraggiose: salpare. Probabilmente legata al latino exherpare, ossia “uscire dal porto”, essa è collegata ai verbi greci exérpein, col medesimo significato, ed exarpàzein, “strappare”. Perché per uscire dal porto, occorre tirare su dall’acqua l’àncora, strapparla via dal fondo in cui è immersa. L’àncora è un simbolo di salvezza, è la stabilità di cui tutti abbiamo bisogno, è la speranza di poter mettere radici, è sicurezza tra le correnti. Ma la parola dice anche altro: hanc horam, ossia “quest’ora”, dunque “è il momento, vai, puoi farcela, sei fatto per scoprire un sacco di cose belle”.

Quando, però, ci si rifiuta di lasciare il porto sicuro e affrontare il mare aperto, allora significa che la comodità, o certi insani attaccamenti, sono considerati più vitali del futuro, che l’àncora è diventata più importante della vocazione della barca. Così, in quell’immerso, restano sommersi assieme ad essa il coraggio, l’energia, il desiderio, la curiosità. E si resta adagiati sulla superficie, nella calma che spesso è una scusa per rimandare, allungare i tempi, procrastinare le decisioni, non cogliere l’attimo, non cambiare, in un lunghissimo, eterno “ancóra” che fa dell’àncora una pericolosa zavorra. Incredibile, un accento e tutto cambia!

Gli strappi sono dolorosi, questo è sicuro. Non si tira mai un’àncora a cuor leggero; non si salpa mai come se nulla fosse; non si parte mai con una gioia univoca e totalizzante. Certi strappi vanno addirittura evitati, come quelli nelle vele. Ma non è questo il caso, qui si parla di varchi vitali, non di brecce pericolose.

La cosa curiosa è che strappare via l’àncora non è solo un’azione faticosa dal basso verso l’alto; c’è dell’altro. Essa smuove il sommerso in orizzontale, lo spinge ad allargarsi, a rimescolarsi e a prendere parte a quello che accade fuori. Con l’àncora salgono su forze preziose, mentre tesori e perle di inimmaginabile valore trovano nuova collocazione sul fondale. Diversamente tutte queste cose rischiano di restare sepolte e di morire di sterile fissità.

Non si vive di sola interiorità: la profondità, del mare e del cuore, va mossa e messa in disordine di tanto in tanto, soprattutto va aiutata a mettersi in collegamento con la superficie e con il mondo esterno, così da diventare energia e dono, per sé e per gli altri. Per cui, di tanto in tanto, quando arriva l’ora, bisogna salpare, bisogna partire. Affetti, famiglie, radici, valori, ideali, ricordi vengono con noi e trovano nuova collocazione dentro di noi, quando l’àncora sale e permette di salpare. Se la paura dello strappo e la pigrizia del cambiamento, invece, frenano, allora essi resteranno reperti sommersi, belli da vedere, appena emozionanti.

Ma questo è museo, non vita. E la vita ha altre esigenze, perché ha altre bellezze.