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Tra nuove presenze e drammatiche assenze

«Parlano del Natale. Parlano…parlano. E non sanno nemmeno cos’è. Non sanno che Natale è tutti i giorni». Mio padre è uno di poche parole, per cui sa usarle bene. Chiaro, diretto, conciso. Stanco quanto me di questo stillicidio natalizio.

Sia chiaro: non è per sminuire il periodo, con la sua carica simbolica e le sue tradizioni secolari e, per chi crede, la sua valenza religiosa e cultuale. A casa mia il Natale è sempre stato sentito e celebrato, soprattutto come occasione di ritrovo familiare; ma anche e soprattutto preparato da altri 364 giorni di amore e rispetto. Ed è a questo che la frase di mio padre mi ha riportata.

Non si può ricordare l’unione solo per un giorno. Non si può pretendere in poche ore di recuperare rapporti sfilacciati dalla delusione e feriti da parole spropositate. Natale non è una pezza, per dirla con un’espressione tutta pugliese, che pure il Vangelo riporta, perché Gesù ben conosceva l’illusoria funzionalità dei rattoppi. Rattoppo è, ad esempio, fare delle prossime festività una questione politica travestita da bontà convenzionale, come accade a chi ne parla con le mani sporche di decreti contro i migranti, dimenticando probabilmente che a Natale si celebra la nascita di un povero migrante, partorito in una stalla perché tutti avevano chiuso le proprie case, i propri “porti”. Schizofrenia tipica di chi vive il 25 dicembre ovattandolo dal resto dei giorni e dalle azioni più ordinarie.

La pandemia ci ha sbattuto in faccia questa verità: a prescindere da chiusure ed aperture, decreti e controdecreti, questo Natale obbliga più che mai a guardare in faccia le persone di sempre. Quelli di casa. Quelli con i quali si litiga almeno una volta al giorno. Quelli dell’anonima ordinarietà, a volte piena solo di incombenze, incomprensioni e recriminazioni. Quelli dai quali si cerca spesso di evadere, alienandosi in rifugi di sopravvivenza, fisici e mentali, entro le stesse case.

Occorre sempre costruire, ossia cum-struere, “tenere insieme gli ammassi”, la matassa della vita quotidiana, imparando a benedire ogni momento, senza cercare continue fughe, senza rimpiangere sempre ciò che non c’è. Anche perché rimpiangere qualche posto vuoto a tavola nel prossimo Natale, significa avere occhi drammaticamente chiusi su famiglie realmente distrutte e provate, nelle quali i posti a tavola mancheranno per sempre.

Occorre progettare, cioè pro-iectare, “gettare davanti” pensieri, azioni, parole, iniziative, sogni, desideri, emozioni, delusioni, fallimenti, omissioni, lutti palesi e celati. Il Natale non ammette finzioni, ci prende come siamo ed è tanto più genuino quanto più ci coglie immersi nell’impegno di dare un senso al nostro essere gettati nell’esistenza, per riprendere Heidegger. Del resto il Natale stesso non ammette improvvisazioni: costruire un presepe e progettare un albero non sono cose da niente. Abbisognano di passione e della creatività di tenere insieme elementi diversi, dando loro quel significato che li rende poi simboli. E il simbolo non si limita ad assemblare cose; esso “syn-ballein”, unisce due realtà permettendo reale scambio, contaminazione, partecipazione.

È difficile il Natale. Nulla a che vedere con certi abusi di segni e parole. Nulla a che spartire con i luoghi comuni più inospitali: «a Natale si sta con la famiglia»; «a Natale si torna a casa»; «a Natale si sta insieme». Sempre si sta con la famiglia, sempre si torna a casa, sempre si sta insieme. Ma lo stare chiede di andare oltre la stigmatizzazione della presenza fisica. Essa resta vitale; eppure la lontananza, imposta dall’attuale pandemia, stimola nuove presenze e contemporaneamente svela drammatiche assenze, spronando ad una presenza più vera, completa e sentita. Una presenza che sia espressioni di relazioni sane, in cui lo stare insieme non è mai arrangiato, in cui ci si scomoda per un gesto o un favore, in cui non si aspetta Natale per volersi bene, ma ci si rispetta sempre e si attendono le festività per celebrare in modo particolarmente luminoso quello che ogni giorno, a luci spente e ad alberi e presepi riposti nello stanzino, si impara a celebrare.


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Sono un'insegnante, anche se il più delle volte sono io quella in-segnata dai miei studenti. Sono una ricercatrice, perché cerco piste di rilevanza pubblica per una materia troppo fraintesa e troppo di nicchia: la teologia. Sono una giornalista e faccio cose con le parole. "Quello che non ho è quel che non mi manca" (F. De André) e sono immensamente grata alla vita perché, non senza impegno e sacrificio, "ho trovato amore nel mezzo de la via, in abito legger di peregrino" (Dante Alighieri, Vita nova)

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